Fonte Associazione Popolari a firma di Giuseppe Ladetto 

Su “La Stampa” del 18 settembre, si dà notizia del Rapporto ISPRA presentato al Senato il giorno precedente. Il documento fornisce dati che non necessitano di commenti.

In Italia continua inarrestabile la cementificazione del territorio. Tra il 2016 e il 2017, sono stati persi 53,5 kmq di suolo verde e libero per l’espansione delle aree edificate, per la costruzione di strade e infrastrutture varie. Nell’anno successivo (tra 2017 e 2018), per le stesse motivazioni, sono stati cementificati 51,0 kmq di territorio, con una media di 14 ettari al giorno. Il Paese, tra il 2012 e il 2018, ha perso una superficie coltivata atta a produrre 3 milioni di quintali di prodotti agricoli e 20.000 quintali di prodotti legnosi, a stoccare 2 milioni di tonnellate di carbonio e a filtrare 250 milioni di acqua piovana. Il danno potenziale è stimato tra 2 e 3 miliardi di euro l’anno.

Tenuto conto che l’obiettivo europeo è azzerare il consumo netto di suolo agricolo e libero entro il 2030, è palese che siamo lontani dall’obiettivo e che non si fanno passi in avanti. Mi permetto di aggiungere che se, in materia di suolo, le cose non vanno ancor peggio è solo per la stagnazione economica in atto.

Ma la situazione non sembra essere percepita. Due giorni dopo (il 20 settembre), sempre “La Stampa” ha pubblicato stralci dell’intervento di Filippo Patroni Griffi a un convegno di studi amministrativi a Varenna. In tale occasione, Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato, ha detto che ”il governo del territorio non si limita alla disciplina delle trasformazioni edilizie, ma deve muovere lungo due direttrici di fondo: – crescita economica, sostenibilità e coesione sociale; – chiedere alla città non solo di mettere a disposizione il suolo, ma di offrire servizi e infrastrutture ai cittadini”. Ha inoltre aggiunto che “la contrapposizione tra infrastrutture e ambiente, tra sviluppo e sostenibilità, spesso alimentata da politiche ideologiche e di parte, non ha senso: ai territori servono nuove opere e salvaguardia dell’esistente, sviluppo e conservazione, rigenerazione urbana e politiche di sviluppo”.

È evidente la grande distanza esistente fra le considerazioni riportate nei due articoli del quotidiano torinese. Qual è l’impostazione alimentata da politiche ideologiche e di parte (di cui parla Patroni Griffi)? In genere, chi ha una visione ideologica non ama confrontarsi con i numeri, che sempre richiamano alla realtà e, come ho detto, i dati forniti dall’ISPRA parlano da soli in materia. Ma la questione della possibile contrapposizione tra crescita economica e sostenibilità ambientale non riguarda il solo consumo di territorio.

“Il governo già litiga sul decreto clima” titolano i giornali. Infatti è bastato che da generiche dichiarazioni in difesa dell’ambiente e di lotta ai cambiamenti climatici si passasse a sia pur molto limitate proposte perché fiorissero gli stop da tutte le parti (opposizione e maggioranza di governo).

E a porre alt e a fare obiezioni, non sono solo i politici. In un dibattito mattutino su La7 (Omnibus) in cui non c’erano esponenti di partito, ma personalità, ricercatori ed esperti soprattutto del mondo economico e giuridico, i discorsi ascoltati sono stati di questo tenore:

    • togliere i sussidi alle fonti fossili pone gravi problemi alle industrie energivore mettendole in crisi sul piano dei costi;
    • tassare il gasolio danneggia l’agricoltura, i trasporti e fa aumentare i prezzi delle derrate;
    • porre limitazioni ai contenitori di plastica penalizza le industrie produttrici della stessa che danno notevole occupazione;
    • i film plastici sugli ortaggi ne garantiscono una più lunga conservazione; vietarli comporterebbe un forte spreco di alimenti;
    • tassare i voli in aereo penalizza il turismo. E via dicendo.

Un solo partecipante al dibattito ha colto nel segno. Consumo di territorio, inquinamento da plastica, cambiamenti climatici hanno tutti un impatto negativo sull’ambiente e vanno combattuti, ma senza fare confusione: ad esempio, eliminare o ridurre i contenitori di plastica va bene, ma ha un effetto minimo sulla riduzione delle emissioni di CO2. Il cambiamento climatico è il nemico numero uno contro cui mettere tutte le nostre energie. Affrontare questa minaccia non è compito del solo ministro dell’ambiente (con interventi settoriali che possono anche essere utili senza tuttavia andare al cuore del problema), ma deve diventare il tema centrale di ogni azione di governo. Oggi invece, come dimostrano le obiezioni fatte al decreto clima, si subordinano le azioni necessarie contro il cambiamento climatico a criteri di compatibilità con l’assetto economico-produttivo vigente che non viene messo in discussione.

È quanto da tempo dice anche Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti, quando afferma che la lotta contro i cambiamenti climatici è la priorità. Lo ripete oggi Greta Thunberg trascinando a manifestare nelle piazze decine di migliaia di giovani.

E tuttavia mi chiedo fino a che punto si comprende che cosa ciò significhi nella realtà. Ascoltando parlare dei giovani studenti entusiasti delle iniziative della ragazza svedese, mi è parso che anch’essi fossero molto lontani dal percepire gli impegni e le rinunce che comporta una seria lotta contro i cambiamenti climatici. Forse per darne una idea, sarebbe il caso di parlare di “guerra” e non di semplice “lotta”.

Essere in guerra, per un Paese, significa indirizzare tutte le risorse a sostegno del combattimento in corso; prevede di privilegiare la produzione di ciò che è indispensabile a chi è al fronte e di ricercare la messa a punto di innovativi strumenti di lotta; comporta talora la requisizione dei mezzi privati se necessario; impone la precettazione dei cittadini a cominciare dai giovani; richiede di limitare i consumi non indispensabili ricorrendo al tesseramento; pone limiti ai movimenti delle persone e delle merci, e via dicendo. Certamente ciò accade quando un Paese è totalmente coinvolto in eventi bellici e si trova in prima linea.

La minaccia dei cambiamenti climatici è oggi tale da richiedere questi rimedi estremi? Fino a che punto è necessario spingersi? Sono quesiti a cui devono rispondere prioritariamente coloro che ne hanno la competenza e che da tempo studiano, misurano e valutano i fenomeni in corso e la loro evoluzione. In ogni caso, teniamo presente che quanto più si dilazionano i necessari interventi, tanto più duri questi dovranno essere e tanto più dolorose saranno le conseguenze.

Ripeto ancora una volta quanto disse Barbara Spinelli già parecchi anni fa: “La questione delle modificazioni climatiche è diventata il riferimento prioritario di ogni politica responsabile. Affrontare questo problema comporta la necessità di cambiare la nostra maniera di vivere e di pensare; ci impone di ripensare i saperi, compreso quello economico e di mutare i modi della politica. Bisogna essere consapevoli che per condurre la battaglia in difesa dell’ambiente, perirà una parte essenziale dell’esperienza liberale: quella parte che, a cominciare dalla rivoluzione industriale, ci ha abituati a credere nel progresso illimitato, nel cittadino-consumatore libero di fare quello che gli piace, nell’aspirazione a una felicità individuale indipendente dall’effetto che essa ha sulla Terra e sull’umanità”.

È venuto il momento di prendere atto di queste parole e di agire di conseguenza senza più esitazioni.