La storia dell’Unione Europea è densa di vertici notturni, trattative infinite, compromessi al ribasso. Con queste accidentate modalità essa è riuscita, anno dopo anno, a progredire nella propria avventura. Certo, il passo non è quello sicuro del montanaro, lento e corto ma continuo. Ogni tanto l’Unione si ferma, volge all’indietro lo sguardo per poi magari ripartire con uno strappo. E’ andata così anche stavolta. Solo che in questa occasione i rischi di un suo naufragio erano davvero alti, dovendo essa reagire di fronte alla più grave crisi sanitaria ed economica patita dalla comunità umana dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La risposta è stata all’altezza, e solo i cantori dell’antieuropeismo ad-ogni-costo sono riusciti a negarlo, peraltro con eco assai scarsa. Vero è, piuttosto, che volendo andare oltre il primo entusiasmo e oltre i numeri un osservatore attento rileva i problemi che inesorabilmente l’estenuante negoziato concluso dieci giorni fa reca con sé. 

Le cifre sono imponenti, anche perché si aggiungono agli interventi già previsti, ivi inclusi quelli adottati dalla Banca Centrale Europea. Si tratterà di utilizzare questa enorme massa di denaro al meglio e nei tempi giusti (e questo sappiamo sarà il principale problema dell’Italia). Esse arrivano certo a valle di un compromesso, come sempre accade in questi casi. Ma soprattutto arrivano perché i due principali Paesi dell’Unione – Germania e Francia – hanno ricercato e infine trovato, nei mesi scorsi, un’intesa che è vitale per i destini dell’Unione medesima. I loro leader hanno entrambi un valido motivo per favorire il successo di Bruxelles: Merkel per lasciare una legacy politica di alto profilo, e quindi non solo limitata al proprio Paese; Macron perché su una certa idea di Europa vinse le elezioni, nel 2017, e cercherà di rivincerle, nel 2022. La presenza al vertice della Commissione di un’altra tedesca, Ursula von del Leyen, compagna di partito della Cancelliera nonché personalità in evidente crescita di standing, ha aiutato l’impresa. Un’impresa non da poco: l’emissione, per la prima volta, di debito comune europeo per finanziare la ripresa economica principalmente nei Paesi maggiormente colpiti dall’epidemia Covid-19. Un esempio di sussidiarietà nel senso della coesione che davvero non può venire sottovalutato. 

Dentro questo risultato dalla forte valenza politica, destinato a segnare un punto importante per il futuro della UE, vi sono alcuni dati negativi legati al compromesso raggiunto che è giusto rilevare ma non sopravalutare; ma vi sono pure alcuni problemi di fondo che viceversa vanno considerati con estrema preoccupazione.

Fra i primi indubbiamente il più insopportabile è rappresentato dalla riduzione dei contributi di alcuni Paesi (quelli a guida olandese che più si sono battuti contro il Recovery Fund così come era stato delineato dalla Commissione) al bilancio settennale UE. Un bilancio che (se non fosse per il Fondo per la Ripresa o Next Generation UE, 750 miliardi) è già di suo insufficiente (1074 miliardi, circa l’1% del PIL di ogni Paese membro) ed ora, detratti gli oltre 50 miliardi ottenuti quali “rebates” dai c.d. “frugali” (aggettivazione invero insulsa), lo sarà ancora di più. La riduzione determina, va da sé, alcuni tagli: al programma Horizon per la ricerca, al nuovo Piano Juncker per gli investimenti (ora chiamato InvestUE), a programmi già definiti dalla Commissione per rafforzare i sistemi sanitari nazionali (e questo è molto grave), agli aiuti umanitari e ad altre voci ancora.

Altra negatività (probabilmente però più di facciata che di sostanza) è l’attivazione del “freno d’emergenza”: un nuovo esempio della fantasia degli euro-burocrati nel denominare meccanismi di verifica spesso astrusi quando non incomprensibili. Nel caso, si tratta del compromesso che ha consentito di superare l’inaccettabile pretesa olandese per la quale ogni Paese avrebbe potuto opporre il diritto di veto nei confronti dei piani di spesa di qualsivoglia altro partner. Un’opzione che evidentemente avrebbe smantellato il Recovery Fund prima ancora della sua partenza. Ora il “freno” si limita – con un massimale temporale di tre mesi – a una possibile segnalazione al Consiglio Europeo delle supposte violazioni da parte di un altro Paese membro dei criteri di spesa stabiliti.

Un piccolo bilanciamento a questi elementi di compromesso al ribasso lo si registra da un lato (ed è un fatto importante perché anch’esso è una novità assoluta) nella raccolta diretta da parte dell’Unione di entrate fiscali nel settore ambientale. Così come l’opportuna indicazione da parte della Commissione sulla necessità di indirizzare le risorse del fondo verso l’occupazione, la digitalizzazione, la sostenibilità ambientale.

Ma i problemi di fondo, si diceva, quelli che si ripresenteranno e potranno indebolire notevolmente il percorso dell’Unione sono altri. Meritano un approfondimento ben maggiore di quello che si può fare qui ora. Però almeno farvi fugace accenno è possibile, salvo riprenderli in un prossimo futuro per una più compiuta analisi.

La pressione sovranista, innanzitutto. Pare oggi più debole, ma non lo è. Mark Rutte, premier dei Paesi Bassi dal 2010, è lo stesso politico che nei primi mesi del 2017 sconfisse il favorito dai sondaggi, l’odiatore xenofobo antieuropeista Gert Wilders. Il prossimo anno i due si scontreranno di nuovo e il leader liberale ha deciso di non volersi scoprire su quel versante: la sua antipatica battaglia, che è parsa quella di un insopportabile burocrate primo-della-classe con quei suoi occhialini tondi, in realtà è stata tutta politica. Problemi analoghi avevano i capi delegazione degli altri stati nordici. Lo si è detto mille volte, ma il fatto è che nell’Europa democratica ove si tengono periodicamente libere elezioni ogni politico innanzitutto fa i conti col proprio elettorato, nazionale, e solo in un secondo tempo, eventualmente, si misura con i problemi e le necessità dell’Unione. I conflitti interstatuali nascono innanzitutto da qui.

E poi vi è la divisione sociale, non solo economica, fra Europa del Nord ed Europa mediterranea con la prima che – ora orfana di Londra – vede nella UE solo un mercato comune, secondo una logica e un vissuto commerciale che non immagina neppure lontanamente un qualsiasi sviluppo politico di natura federale. Nonché quella, più grave se possibile, fra Europa dell’Ovest e Europa dell’Est, quest’ultima rimasta per lunghi anni sotto il giogo comunista e le cui Nazioni ora vedono nella UE una sorta di erogatrice di fondi a ricompensa di un mancato sviluppo dovuto al loro esser state private per troppi anni della libertà d’intrapresa. Abilissimo nell’utilizzo del potere di veto, il Gruppo Visegrad sa come pretendere e ottenere risorse finanziarie ma non si preoccupa minimamente di superare la cultura illiberale (che tuttora si annida nei meandri della politica dei Paesi che lo compongono) in favore della logica indisponibile della democrazia di matrice occidentale. E così la giusta idea per la quale si legava l’erogazione dei soldi del Fondo per la Ripresa al rispetto dello stato di diritto (davvero una condizionalità minima e obbligatoria in un luogo come l’Europa) ha dovuto essere sacrificata sull’altare del compromesso. 

Argomenti, questi, che meritano un serio approfondimento ma che ci fanno sin d’ora capire quali saranno i punti dirimenti che i Ventisette dovranno affrontare a pandemia finita e che si riassumono in un unico quesito: come procedere? Secondo un’idea confederale? Secondo un processo di differenziazione fra Paesi che uniranno ancor più politiche e risorse e altri che seguiranno (solo se lo vorranno) in un non precisato futuro (ovvero il c.d. sistema a “doppia velocità”)? Secondo un metodo misto comunitario e intergovernativo ma semplificato dall’abolizione dell’obbligo del voto all’unanimità e dalla contemporanea adozione del voto a maggioranza ponderata? 

Interrogativi ricchi di significati alternativi per i destini dell’Europa comunitaria. Fa specie che a essi le forze politiche del continente, o le “famiglie” politiche, come spesso usa dire, pare proprio non dedichino attenzione alcuna. Divise al loro interno da logiche che, inutile negarlo, sono sostanzialmente nazionali(stiche) esse non paiono in grado neppure di avviare un dibattito in argomento perché, semplicemente, allo stato esse non esistono, mere sigle vuote, prive di qualsiasi legame con la realtà. Un’altra questione con la quale fare i conti, in questa Europa in divenire.