Di fronte al Mistero in punta di piedi. Incontro dell’Osservatore Romano con Marco Bellocchio.

A tu per tu con il regista di “I pugni in tasca” ed “Esterno Notte” nella sala de La Civiltà Cattolica. Bellocchio non ha il dono della fede. “Io vivo come posso, con una discreta coerenza, facendo le cose in cui credo, cercando di avere dei rapporti d’amore con il prossimo, con le persone, non tutte, rapporti non di odio e non distruttivi, però mi fermo qua”.

La conversazione con Marco Bellocchio comincia subito dal cuore del messaggio cristiano: l’amore verso Dio e verso il prossimo. E allora proviamo, ma solo provvisoriamente, a mettere tra parentesi il primo dei due amori e a sviluppare il secondo. Questo perché avevo sentito qualche giorno prima il regista di Bobbio affermare durante la presentazione del libro Una trama divina di padre Antonio Spadaro che «l’esperienza di amare il prossimo, addirittura di amare il nemico a me è quasi impossibile, sconosciuta. Se venisse qualcuno, se venisse a svelarmi come si fa, che questo amare il prossimo mio come me stesso è possibile, questo per me sarebbe una vera rivoluzione». È stato un momento intenso, che ha toccato il cuore di molte persone che gremivano la sala de «La Civiltà Cattolica». Alcuni tra i presenti l’hanno paragonata ad una confessione, altri ad una preghiera. A me è sembrato un appello che mi ha spinto a cercare l’artista e ad andarlo a trovare, senza nessuna pretesa di essere quel “qualcuno” capace di svelare, ma almeno di continuare la conversazione così, come due viandanti lungo il cammino della vita.

«Quella espressione, “amare il prossimo come me stesso” ce l’ho impressa nel cuore e nella memoria;» mi risponde con il suo modo di parlare semplice, sincero, disarmante e anche pieno di pause, come se cercasse insieme a te le parole giuste, «e sottolineo amare non di più ma “come”; è però già tantissimo: l’amore vero e gratuito per gli altri ed è per me qualcosa di sconosciuto. Non nel senso di mai sentito, perché è un’espressione che, insieme a tante altre, mi è stata insegnata da bambino; ho avuto infatti, come tanti, un’educazione cattolica, poi però la mia vita, prima di tutto famigliare, con una serie di problematiche profonde, mi ha messo sulla difensiva, per cui è prevalso un principio di sopravvivenza. Ti difendi, ti arrocchi, ti chiudi. Non hai risposte e perdi la fede».IMG_0576.jpeg

Il regista rivisita il suo percorso artistico e anche politico e chiama in ballo alcuni “maestri”.

Naturalmente poi, anche una serie di politiche e artistiche, mi hanno spinto verso non tanto il materialismo perché poi io sono sempre stato un idealista, non sono mai stato un vero marxista, mi hanno spinto verso una ricerca dove la religione era assente. Però è vero, quando ho parlato alla presentazione del libro di padre Spadaro (intervento improvvisato, non previsto) ho voluto citare il film di Dreyer Ordet. La lista sarebbe lunga di grandi artisti che hanno a che fare con la trascendenza e che mi hanno affascinato. Penso a Robert Bresson e al suo Diario di un curato di campagna. Bresson ha un rapporto diretto con la trascendenza, sia pure nella sofferenza, quasi nell’agonia (la sofferenza di Cristo sul monte degli ulivi e poi sulla croce, l’agonia) ho in mente oltre al Curato anche quel capolavoro assoluto che è Un condannato a morte è fuggito che è un discorso sulla resistenza, sul non arrendersi mai, non disperare mai. Ma oltre al cinema c’è la letteratura e allora penso a Dostoevskij o a Tolstoj che è stata una scoperta tardiva: nei suoi racconti e in lui c’è un rapporto costante col Cristo, con il Vangelo. Penso a quel capolavoro assoluto che è Il divino e l’umano.

Cerco di farlo soffermare su questo tema della forza della rappresentazione e gli chiedo se per leggere un libro o vedere un film non c’è sempre e comunque bisogno di una “fede”. Una fede poetica, se vogliamo, per cui, per dirla con il poeta Coleridge, è necessaria una provvisoria “sospensione dell’incredulità” e Bellocchio ritorna su Ordet Dreyer confidando la sua commozione ogni volta che rivede quel film.

Mi commuovo di fronte al miracolo che vedo rappresentato; non l’ho visto nella realtà ma attraverso la rappresentazione, la fantasia, la creatività di un artista ed è indubbio che lui mi ha rappresentato un miracolo che mi ha emozionato. La donna che dopo aver partorito muore viene “risvegliata” da Johannes, il matto Johannes, e chiaramente questo risveglio mi emoziona. Mi viene in mente un’altra scena, tratta da La dolce vita di Fellini, in cui Mastroianni va a incontrare questa bambina che vede la Madonna e qui c’è una grande recita, una grande rappresentazione interamente pagana. Descrive soprattutto la disperazione e l’inganno.

Lo spingo a parlare dei suoi film ma Bellocchio chiama in causa, come scudo, l’autorità di padre Virgilio Fantuzzi, per decenni critico letterario de «La Civiltà Cattolica», ma forse più che scudo «il grande amico Virgilio» come lo chiama, è piuttosto una spia rivelatrice.

Virgilio scorgeva delle tracce di religiosità in alcuni miei film, e mi diceva (e poi scriveva): tu tradisci nella tua rappresentazione anche dei contenuti trascendenti. E portava diversi esempi come la scena iniziale di Vincere, dove c’è Mussolini che sfida Dio ad apparire altrimenti sarebbe “provata” la sua inesistenza. E Virgilio vedeva poi nella fine del film, nella caduta di Mussolini, la risposta di Dio trent’anni dopo. Io ascoltavo Virgilio prima di tutto con grande affetto, e sono stato contento di quell’ultima intervista che poi ho inserito nel film Marx può aspettare, in cui Virgilio vedeva il mio cinema come una confessione ininterrotta e anche come una Via Crucis».

Per leggere l’intervista completa