Elezioni Lazio 2023: dimenticare Zingaretti, la voglia di cambiamento punisce il Partito democratico. Domenica le votazioni.

Molti elettori di centro-sinistra si apprestano a disertare i seggi. O a votare contro. Pesa in generale un sentimento di disaffezione per quanto ha fatto, o meglio non ha fatto, Nicola Zingaretti. La colpa ricade su una classe dirigente - sostanzialmente quella del Pd - che ha mortificato la fiducia di un numero rilevante di persone.

La questione morale, nel mezzo dello scorso anno, ha volteggiato come un avvoltoio sul Partito democratico del Lazio. Il caso Ruberti poteva provocare anche più danni, sebbene uno strascico pesante, fatto di sospetti e congetture, abbia lasciato comunque un segno nella pubblica opinione. Poi, sul piano politico, un vero tsunami si è abbattuto sul centro-sinistra a seguito della vittoria della Destra e l’avvento del governo Meloni. Da quel momento si è proceduto a tentoni, senza una linea chiara, cercando inutilmente il riaggancio con i 5 Stelle a livello regionale. Tutto in salita.

E allora, che dire? Non è cominciata bene la campagna elettorale e forse, proprio sull’onda dei tormenti per la mancata intesa con i 5 Stelle, rischia di concludersi ancora meno bene. Luca Bergamo, capolista di Demos (il partito vicino alla Comunità di Sant’Egidio) e un tempo vice sindaco della Raggi, ha messo i piedi nel piatto: domani, in consiglio regionale, con il partito di Conte andrà recuperatauna linea di collaborazione. Pertanto, a pochi giorni dall’apertura delle urne si prefigura uno scenario che rende vacuo l’appello al voto disgiunto, pure risuonante nelle dichiarazioni, sempre povere di argomenti suggestivi, del segretario regionale dei Democratici, Bruno Astorre. A suo dire, fare ricorso all’espediente della scelta differenziata – per la lista di partito e per il presidente – è “indispensabile se non si vuole far tornare la destra al governo della Regione Lazio”. Gli elettori, quand’anche fossero orientati a favore dei 5 Stelle, non dovrebbero perciò disperdere i consensi a riguardo del candidato presidente. 

Ora, con la stessa logica di Astorre i 5 Stelle invitano a fare altrettanto, ma a vantaggio della loro candidata, la giornalista Rai Donatella Bianchi. I messaggi si annullano e il caos aumenta. Se c’è un effetto prevedibile, stando ai sondaggi, è che l’astensionismo cresca ancora: pur di non votare a destra, molti elettori di centro-sinistra si apprestano a disertare i seggi. Data la rassegnazione, manca addirittura il propellente della sfida, l’attesa del colpo d’ala, la voglia di lottare come che sia, spes contra spem, giusto per tentare l’impossibile. E l’intesa con Calenda, lungi dal rappresentare una limpida scommessa di rinnovamento, si è subito contratta nella modestia di una formula avventizia, ben lontana da un’opzione impegnativa e coraggiosa. Anche convincere i fedeli appare estremamente difficile in queste condizioni e D’Amato, privo di sostegni adeguati, fa la figura di chi è costretto a barcamenarsi.

Qualcuno gli rimprovera di aver impostato la campagna elettorale all’insegna della continuità con l’esperienza di Nicola Zingaretti. Quanto può valere, in effetti, un’eredità che lascia irrisolti tanti problemi e marca un deficit di sapienza e concretezza amministrativa? La sanità, dribblato il Covid, è rimasta al di sotto dei parametri di efficienza; gli impegni sul versante delle infrastrutture e della viabilità non sono stati rispettati, come certifica l’inconclusa vicenda della Roma-Latina; la risposta all’emergenza rifiuti ha sfiorato la farsa per il tasso di ambiguità e ipocrisia, di cui i cittadini romani hanno sopportato e continuano a sopportare le conseguenze; e infine, nemmeno la programmazione territoriale ha conosciuto quel salto di qualità che si realizza, di solito, quando scatta il coinvolgimento attorno a una visione alta della politica urbanistica. Si potrebbe continuare nell’elenco. Con Zingaretti ha trionfato il clientelismo e subito appresso, grazie alle pratiche clientelari, si è imposta una logica di accentramento, anche settaria, con la conseguente emarginazione delle forze non omologate, specie nelle realtà provinciali. Insomma, l’eredità che D’Amato ha raccolto passivamente, senza il necessario discernimento critico, rappresenta alla resa dei conti il maggiore ostacolo nel confronto con la pubblica opinione.

Bisogna capire, allora, quanto una parte dell’elettorato consideri ineluttabile e persino salutare che sulla Pisana si abbatta la tromba d’aria di un voto punitivo e al tempo stesso rigenerativo, con la “speranza canaglia” che da ciò derivi una severa ma benefica lezione per il futuro. Siamo a tanto, ma non per colpa degli elettori; la colpa semmai è di una classe dirigente abbarbicata al potere per troppo tempo, che ha mortificato la fiducia di un numero rilevante di persone, magari intentificabili nell’area centrale dell’elettorato, sinceramente animate da fede democratica e passione riformatrice. E ormai disincantata – guai a non capirlo – rispetto a un moralismo che piega fatalmente all’aggressività strumentale. Sulle macerie bisognerà ricostruire.