Don Milani, il maestro giunto alla fine del mondo per farne lo spicchio di un mondo nuovo.

È stato un profeta, anch’egli come altri profeti riconosciuto solo dopo la morte. La sua missione pedagogica, tuttora suggestiva, contempla una scuola capace di integrazione. Non era un “prete rosso”, ma certo inventò una rivoluzione.

Nell’anno in cui ricorre il 50° anniversario delle “150 ore, grande conquista sindacale che riconosceva il diritto allo studio per i lavoratori, si celebra il Centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Sono molti gli elementi che si intrecciano in questa fase di transizione tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, dove emergere per altro una rinnovata cultura dei diritti ispirata al legame tra istruzione e lavoro. L’impegno di don Milani – sacerdote e maestro che a Barbiana realizzò la sua scuola popolare per le persone più povere, aperta a giovani, operai e contadini – contribuì, insieme a quello di altre personalità come Aldo Capitini, Danilo Dolci, don Roberto Sardelli ad aprire vasti dibattiti che trovarono una grande cassa di risonanza nelle rivendicazioni di piazza. 

La questione centrale è rappresentata dal processo di alfabetizzazione, avviato dalle istituzioni subito dopo il secondo dopoguerra e, di conseguenza, dallo sviluppo della scolarizzazione nel nostro paese. Nell’Italia repubblicana, con la Dc che avrà a lungo la guida del governo e del dicastero della Pubblica Istruzione, il tema della partecipazione alla nuova vita democratica emergerà come una delle questioni dominanti, soprattutto quando, a partire dalla fine degli anni ‘60, sulla scena pubblica entrano in gioco nuovi attori: tra questi i giovani, gli operai e le donne che mettono al centro nuovi bisogni e la rivendicazione di nuovi diritti.

Per favorire la scolarizzazione furono messe in atto diverse iniziative. Tra queste vale la pena ricordare quelle promosse dalla RAI in sinergia con il Ministero della Pubblica Istruzione, che si rivelarono uno strumento fondamentale nella lotta all’analfabetismo. Si parlerà, infatti, di “televisione pedagogica” nel momento in cui sugli schermi degli italiani, dal 1958 al 1968, fecero il loro esordio “Telescuola” e “Non è mai troppo tardi”, programma quest’ultimo guidato dalla celebre figura del maestro Alberto Manzi, destinato a uno straordinario successo.

È in questo fervido contesto pedagogico che si sviluppa l’opera di don Milani, forma di un teatro che agisce lontano dai riflettori ma decisiva per pensare una società più giusta. Cresciuto in una famiglia colta, facoltosa e agnostica, don Lorenzo è un uomo illuminato e persuaso innanzitutto dall’idea che sia dovere della Chiesa occuparsi dell’istruzione dei suoi fedeli, sognando una scuola che non escluda i ragazzi meno fortunati. La sua è una pedagogia rivoluzionaria che vuole educare alla vita, partendo da tre pilastri: l’istruzione, il Vangelo e la Costituzione. Dopo alcuni passaggi controversi, il 7 dicembre 1954 arriva quasi da esiliato, come priore, a Barbiana, nella Chiesa di Sant’Andrea. Il piccolo borgo è situato nella valle del Mugello, in provincia di Firenze, e qui don Lorenzo abiterà fino alla fine dei suoi giorni in compagnia di poche decine di famiglie che gli affidano i figli. Il motto della sua scuola è “I care”, che vuol dire “mi riguarda”, “mi prendo cura”. Seguendo questa regola don Lorenzo realizza un’esperienza a ciclo unico nella quale il maestro e i suoi allievi fanno vita comune; un’esperienza che costituirà un esempio per qualsiasi insegnante. La sua “officina popolare” attirerà sull’Appennino toscano tantissima gente, in particolare educatori e personaggi del mondo delle istituzioni e della cultura. «Chi sale a Barbiana non può non tornare indietro senza un significativo insegnamento: il no all’indifferenza». Lo affermò, alla sua prima uscita pubblica, Giuseppe Fioroni, ministro della Pubblica Istruzione, partecipando alla tradizionale marcia di Barbiana nel maggio del 2006.

Personalità scomoda, soprattutto agli occhi delle gerarchie ecclesiastiche, non arretra nel suo pensiero, anzi nel 1967, mentre nel paese si sta esaurendo la prima esperienza riformista tra Dc e Psi, esce Lettera a una professoressa, a tutti gli effetti una provocazione, un testamento spirituale e, insieme, una proposta educativa. Il testo, scritto con i suoi allievi, si traduce in un atto d’accusa verso l’intero sistema scolastico italiano, tanto da suscitare un vivace dibattito e a provocare aspre polemiche. Succede, in effetti, che certi libri travalichino il loro tempo e diventino un mito. Si può dire che è quanto accaduto a don Milani. In realtà le sue riflessioni rischiarono di diventare anche altro, soprattutto quando la Lettera diventò l’epicentro della contesa tra la protesta studentesca e l’ideologia comunista e cattolica, finendo per scuotere molte coscienze nella società italiana del tempo. Come scrisse Italo Montini nel suo “Ricordo di don Milani” sulle pagine de “Il Popolo” del 28 giugno 1967, egli dovette difendersi dal «tentativo di agganciamento da parte dei comunisti che […] respinse vigorosamente». Si tratta di una tesi che verrà ripresa anche dallo storico Gianpaolo Romanato quando, nel decennale della scomparsa del sacerdote, scriverà sempre sul quotidiano della Dc un articolo dal titolo “Il primato della fede nella vita di don Milani”. Sembra utile ai fini delle nostre osservazioni evidenziarne uno stralcio: «La sua preoccupazione era la progressiva defezione dei poveri dalla Chiesa e la necessità, per recuperarli, di condividere la loro miseria e la loro sofferenza. Il primato, diceva, non spetta alla giustizia, ma alla fede; tuttavia per recuperare il popolo alla fede bisogna prima fargli giustizia. Solo interessate deformazioni dei fatti hanno potuto farlo apparire un prete rosso; al contrario egli giudicò il comunismo una dottrina che “non vale nulla, una dottrina senza amore, non degna di un cuore di un giovane”».

Oggi si può che anche lui come altri profeti non ascoltati nel loro tempo condivida il singolare destino di essere stato “rivalutato” solo molti anni dopo la morte, essendo finalmente riconosciuto come l’artefice di una delle più importanti esperienze educative del nostro paese, sicuramente densa di forti implicazioni pedagogiche e didattiche.

Ripercorrere la sua biografia, a partire dalle opere più signifivative, ci permetterebbe di recuperare idee e valori che non sono più moneta corrente nel dibattito pubblico di questi ultimi anni. Potrebbe offrirci, inoltre, l’occasione per riflettere soprattutto su un sistema scolastico inclusivo, che non lasci indietro nessuno, perché – sono le sue parole – «se non riesce a recuperare gli alunni più svantaggiati, la scuola diventa come un ospedale che cura i sani e respinge i malati». In questa prospettiva, una buona notizia arriva dalla Rai che proprio in questi giorni sta trasmettendo “Barbiana ´65”, l’unico documento esistente, inedito e restaurato, con don Milani in scena.

Il priore di Barbiana ha vissuto tra gli ultimi, offrendo gli strumenti di riscatto sociale e culturale. La sua è una pedagogia dell’emancipazione, riformista e progressista, incardinata in una visione ideale e religiosa ancora viva ai nostri giorni. Da tempo alle prese con una grave malattia, si spense a soli 44 anni. Era il 26 giugno del 1967. Le sue spoglie riposano nel piccolo cimitero del borgo, a Barbiana, una scelta che aveva maturato fin dai primi giorni del suo arrivo in quel «niente» alla fine del mondo. Nella sua ultima lettera scrive: «Cari ragazzi […] ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo».