Pubblichiamo, dopo la discussa sentenza sul caso Cappato-dj Fabo, un abstract dell’editoriale di Aggiornamenti Sociali sul fine vita.

Con una sentenza che ha fatto discutere, il 24 settembre la Corte costituzionale ha ritenuto non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio. La questione era stata sollevata dalla Corte d’Assise di Milano in relazione all’aiuto prestato da Marco Cappato a Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, nel recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, consentito dalla legislazione elvetica.

«Bioetica e fine vita – scrive Giacomo Costa nell’editoriale su Aggiornamenti Sociali di novembre (qui il testo integrale) – sono tornate in prima pagina, producendo nuovamente confusione e sconcerto nell’opinione pubblica». Invece, «vale la pena cercare un modo costruttivo di affrontare le tematiche del fine vita, che permetta a una società plurale di muoversi nella logica del dialogo in vista del bene comune e non dello scontro in cui una parte vince a scapito di altre».

Serve dunque un processo collettivo di riflessione e dibattito, che chiama in causa una pluralità di soggetti. In primo luogo, ricorda l’editoriale, «va considerata l’esperienza di chi vive queste situazioni sulla propria pelle»: i pazienti e i loro familiari non possono essere ridotti «a casi clinici o a bandiere ideologiche. Hanno diritto a un ascolto autentico, con tutta la varietà delle loro posizioni. (…) Su un altro piano vi è l’esperienza dei medici e del personale sanitario, che è sovente altrettanto straziante: sperimentano infatti la contraddizione tra la potenza degli strumenti di cui dispongono e l’impossibilità di raggiungere la guarigione a cui la loro azione aspira, mentre devono fare i conti con interrogativi radicali sul significato della propria professione e con il timore di ritrovarsi obbligati a compiere atti a cui in coscienza ritengono di non poter acconsentire». Ma a ben guardare, «le questioni di fine vita ci mettono in gioco tutti, come singoli e come società. (…) Il morire è questione che riguarda singolarmente ciascuno di noi, ma mai puramente individuale, nel senso che accade all’interno di una trama di relazioni».

A partire da questo «principio personalista, che è anche alla base della nostra Costituzione», secondo Costa è possibile individuare alcuni riferimenti per orientarsi. Il primo è «il principio di autonomia e di autodeterminazione anche in campo sanitario: ricevere cure è un diritto da garantire a chi ne ha bisogno, mai un obbligo che si possa imporre al malato». Cosa diversa, sottolinea l’editoriale, è «la rivendicazione del diritto a morire, spesso declinato come diritto a un suicidio medicalmente assistito. Certo non è contemplato dalla nostra legislazione ed è estremamente problematico comprenderlo tra i diritti inviolabili della persona o farlo derivare dal diritto alla libertà personale. Da questi diritti deriva piuttosto l’imperativo alla tutela della vita come base per il godimento di ogni altro diritto, con particolare riguardo per chi è più debole e vulnerabile». Qui tocchiamo «un punto nevralgico», continua il gesuita, «soprattutto in un contesto segnato dalla cultura dello scarto, in cui aumenta la pressione a eliminare chi non è produttivo, mentre la libertà di scelta viene banalizzata e la manipolazione prende forme più sottili e insidiose a cui chi è più fragile finisce per soccombere».

Tuttavia «l’imperativo alla tutela della vita non si trasforma mai nell’obbligo a rimanere vivi a tutti i costi. Anche se spesso confuso con il diritto al suicidio assistito, il diritto alla sospensione delle cure è qualcosa di profondamente diverso (…) In questo caso non ci si dà la morte, né si chiede a un altro di darla, ma la si accetta, ricevendo un adeguato trattamento palliativo, inclusa la sedazione profonda, nell’attesa che essa sopravvenga».

La distinzione tra diritto alla sospensione delle cure e diritto al suicidio assistito è cruciale, e l’editoriale lo ribadisce con forza: «Il diritto al suicidio assistito reclamerebbe la protezione giuridica di un interesse a ricevere aiuto nel porre fine alla propria esistenza, che risulta difficile ancorare al nostro ordinamento. Ma soprattutto presenta il rischio di una progressiva estensione a casi sempre meno estremi, finendo per legittimare il suicidio come opzione ordinaria di soluzione dei problemi. (…) Il diritto alla sospensione delle cure contiene invece il proprio limite».

Sebbene l’editoriale non intenda commentare il merito della sentenza, anche perché non ne sono ancora state pubblicate le motivazioni, è da rilevare che «la Corte tratta il suicidio assistito come una terapia, e quindi tutela la libertà di scelta terapeutica da parte del paziente consentendovi l’accesso. Ma la somministrazione di un farmaco letale al solo scopo di procurare la morte non può essere definita un atto terapeutico e quindi una delle possibilità tra cui si ha diritto a scegliere».

Le ultime considerazioni del direttore di Aggiornamenti Sociali riguardano la necessaria «predisposizione di una nuova normativa che definisca un quadro di riferimento adeguato al nostro contesto (…) Non è possibile gestire le situazioni complesse che la medicina tecnologica rende oggi possibili con uno strumento normativo vecchio di quasi un secolo». Inoltre, «la sentenza pronunciata in settembre produce un assetto che resta precario: l’intervento legislativo non è dunque meno urgente. Il primo compito che come cittadini abbiamo il dovere di assumerci è quindi stimolare il sistema politico a uscire dalla propria inerzia e farsi carico della questione. L’obiettivo non è quello di avere una legge, ma di averne una buona, che si inserisca nel saldo impianto personalista della nostra Carta costituzionale. (…) Ben più che a decidere tempi e modi della propria morte, ogni malato ha diritto di percepire che la trama di relazioni che ne ha sostenuto l’esistenza non si sta sfaldando e che la collettività, anche attraverso il sistema sanitario, continua a ribadirgli in modo concreto e credibile: “Noi ci prendiamo cura di te”».

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