Il centro non è immobilismo, ma equilibrio e innovazione. Deve rappresentare il motore del riformismo.

 

Oggi in Francia la politica di centro passa per la vittoria di Macron. Abbiamo in Italia un problema analogo. L’importante è non smarrire il valore della formula degasperiana del “centro che cammina verso sinistra” perché consente, al di là di restrittive e incongrue intepretazioni, di cementare un nuovo riformismo. L’unico in grado di reggere la sfida di questo tempo inquieto e difficile.  

 

Lucio D’Ubaldo

 

Se non fosse per l’attualità delle elezioni francesi, nelle quali  si consolida il profilo neo-centrista di Macron, non avrebbe grande appeal il ritorno a un’antica disputa, tutta interna al cattolicesimo politico, sul “centro che cammina verso sinistra”.

 

La nota formula degasperiana è posta sotto attacco. In alcuni casi se ne intende smorzare il valore politico facendone l’espressione, ancorché generica, dell’ansia cristiana per il riscatto degli umili; in altri, con più crudezza, se ne denuncia l’erraticità che traspare – così si dice – da uno slogan mal riuscito. Dunque, in nome di un presunto salvataggio del ‘vero’ De Gasperi si tira in ballo anche Sturzo, autore della censura del suddetto slogan.

 

Strano, questo modo di procedere; ancor più strano il sussulto di astrazione, giacché si sposa una tesi con l’ambizione di ancorarsi a un dato oggettivo, ma non si compie alcuna onesta verifica storica, né ci si perita di utilizzare armi improprie – il ricorso a Sturzo – per contestare questa idea del centro dotato di spirito innovativo.

 

De Gasperi, in realtà, credeva nel progresso e per esso combatteva, fin da quando nel suo Trentino scopriva la buona novella della ‘democrazia cristiana’ che a Roma dava impulso alla battaglia del giovane Murri, prima che la sua intempestività lo conducesse alla scomunica. Tra liberalismo e socialismo, ai primi del Novecento, questa nuova opzione si poneva indubbiamente al centro, ma non con l’indifferenza tipica degli ignavi.

 

Il centro voleva significare, nell’apprendistato politico di De Gasperi, l’incontro di libertà e giustizia: la prima in quanto mossa verso la seconda, fuori pertanto dall’assoluto ideologico del liberalismo; e la seconda riconnessa alla prima, a controbilanciare il movimento, così da presentarsi come giustizia non più condizionata dall’elemento ateo-rivoluzionario del socialismo. Nel tempo, specie dopo la sciagurata esperienza del fascismo, De Gasperi rinnoverà la sua adesione a questa combinazione di valori e prospettive, per dare una nervatura al solidarismo del partito-nazione.

 

Egli però, a scorno degli odierni cultori del centrismo senza qualità, ovvero senza un criterio di specificazione utile, indica nel collegamento tra la Dc e le forze di matrice laico-socialista il motore del riformismo democratico e sociale. Ripudia  pertanto l’ipotesi del governo solitario dei cattolici e organizza lo spazio della collaborazione democratica, secondo una direttiva molto chiara: sceglie Einaudi Sforza e Saragat, non Covelli e Lauro (né tanto meno Giannini).

 

Non poteva imbarcarli, i monarchici e i qualunquisti? Ecco, se lo avesse fatto il suo “centro che cammina verso sinistra” – definizione che campeggia addirittura nell’intervista al Messaggero il giorno prima delle elezioni del 18 Aprile 1948 – sarebbe apparso in perfetta contraddizione con il principio ispiratore che fondamentalmente ne determinava l’orientamento e il percorso. Non avrebbe certificato, per dir così, la novità di visione e di azione dei “democratici e cristiani”.

 

Eppure anche i monarchici e i qualunquisti avevano nei loro programmi il contrassegno di un amore per il popolo, addirittura per le plebi; lo avevano nell’ottica di una destra che si bagnava alle acque del paternalismo, a prescindere perciò da un vissuto veramente democratico; e dunque lo avevano come orpello di una politica di conservazione, perché lo stesso movimentismo dell’Uomo Qualunque, nella sua colorita scenografia di denuncia e di protesta, mancava di qualsiasi aggancio a un programma di riordino e trasformazione della società.

 

Ebbene, Sturzo metteva sì De Gasperi alla sbarra per lo “slogan infelice” sul centro, giacchè esso gli si parava dinanzi come il temuto fantasma del cedimento a sinistra; ma  doveva arrivare a questa condanna sul finire degli anni ‘50, al crepuscolo di un’esistenza che scontava le angustie dell’isolamento, con l’ossessione di una Dc perdutamente inabissata nei vortici del vecchio e nuovo statalismo. Bisogna entrare nello spirito delle parole, altrimenti si maschera di storia una manipolazione più o meno onesta.

 

Orbene, è un profeta più che disarmato l’autore dall’articolo in questione (“L’equivoco: centro-sinistra”, Il Giornale d’Italia, 13 giugno 1958): a tal punto, disarmato, da non accorgersi nemmeno di essere in contraddizione con la sua stessa visione della storia e della politica, non certo asservita all’idolatria dell’esistente o alla codificazione dell’immobilismo.

 

In fondo si potrebbe applicare a Sturzo quello che Sturzo applicava a De Gasperi, vale a dire il principio sacrosanto per cui “nessuno deve attribuire ad un uomo il dono dell’infallibilità”. Infatti oggi, stante l’allarme per la dipendenza energetica dalla Russia, non stride con la sensibilità popolare il secco no che Sturzo opponeva a Saragat, come si legge sempre nell’articolo, sul punto relativo alla nazionalizzazione delle fonti di energia?

 

E qui siamo al punto cruciale della questione, perché l’ultimo Sturzo giudica inammissibile il centro-sinistra, ancora allo stato aurorale, vedendo in esso non già il cammino verso l’equità e la giustizia sociale, bensì la tendenza al declino in conseguenza dell’intromissione del potere pubblico nella sfera dell’economia, a discapito dell’autonomia dei gruppi sociali e infine della libertà dei singoli. Una posizione ampiamente rivelatrice della critica sturziana al welfarismo, piuttosto che una valutazione realistica degli equilibri politici in Parlamento e nel Paese.

 

Insomma, visti da vicino gli argomenti della disputa esigono attenzione, evitando comunque di distrarsi nella contemplazione di dettagli improduttivi. Si tratta di salvare il nucleo del popolarismo, la sua originalità di dottrina e prassi al servizio dell’innovazione, la sua capacità di sintesi sociale. De Gasperi, inventando la coalizione dei riformisti democratici, ha dispiegato nella realtà politica un disegno progressivo, portando al culmine dell’azione di governo l’istanza del cambiamento, quello possibile nelle condizioni date dalla Guerra fredda.

 

Nel tempo presente il nemico non è dato dal comunismo, ma dal ritorno in grande stile del nazionalismo e dell’imperialismo. È sotto i nostri occhi. La caduta delle ideologie ha liberato energie positive innescando, al tempo stesso, tentazioni rovinose: una forza equilibratrice, capace di ridurre le spinte radicali, è necessaria alla tenuta di un’autentica e vitale democrazia, sempre in marcia verso una più alta condizione di vita civile.

 

In Francia la risposta viene da Macron, in Italia la memoria di De Gasperi deve secernere una proposta di analoga portata.