Se l’insegnamento scade a servizio sociale a subirne il danno sono i ragazzi. Mastrocola e Ricolfi dialogano sulla crisi della scuola.

Intervista agli autori di un libro da poche settimane in libreria (Paola Mastrocola, Luca Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La Nave di Teseo, 2021), che fa il punto sulla decadenza dell’istituzione scolastica.

 

Il vostro libro mette il dito sulla piaga: quella di un progressivo impoverimento culturale del sistema scolastico italiano, un fenomeno che ha radici forse ancor più lontane di quelle da Voi evidenziate, quando vi riferite alla cosiddetta Riforma Berlinguer che aveva introdotto la “scuola dell’autonomia” nel 2000: quella dei progetti extracurricolari, della valutazione oggettiva e del successo formativo. Guardando a ritroso già successivamente ai decreti delegati del 1974 si colgono segni di un cedimento strutturale: allargando la gestione della scuola a componenti interne ed esterne si sono alzati i piani della partecipazione democratica (e in questo ci abbiamo creduto) ma si sono abbassate le altezze delle professionalità e dello studio inteso come impegno e motivazione. Si tratta dunque di una deriva che abbandona i fondamentali della scuola creando l’illusione dell’uguaglianza semplificata? Ricordo una frase di Antonio Gramsci: “Dobbiamo evitare la tendenza a render facile quello che non può esserlo senza esserne snaturato”: possiamo applicarla anche alla scuola?

La strada intrapresa dalla scuola, negli ultimi decenni, secondo noi è chiara: per aiutare i ceti svantaggiati, abbassare il livello d’istruzione, puntando a una scuola facile, divertente, flessibile, assistenziale. L’arricchimento culturale, che era basato sul valore del sapere e della conoscenza e quindi sullo studio sistematico delle varie discipline, cede il posto a una scuola accogliente, che si occupa del benessere psicologico dei ragazzi innanzi tutto, evitando loro frustrazione e fatica, e noia. Già. L’insegnamento tradizionale è stato bocciato come noioso: meglio allargare a progetti extracurricolari, a laboratori e uscite, meglio abolire la lezione (per molti un versamento di nozioni negli allievi-imbuti). Peccato, perché così i ragazzi vengono illusi e danneggiati: credono di avere una preparazione che invece non hanno; e proprio quelli che si voleva aiutare, cioè i figli delle famiglie meno avvantaggiate culturalmente ed economicamente, quelli che cui sarebbe giovato un’istruzione altissima, spesso non sono in grado di continuare, per impreparazione, studi più complessi.  

Riporto solo una parte delle sigle e degli acronimi che circolano nella scuola 4.0: una babele semantica e simbolica che sopravvive e anzi prolifera. Eppure chi non sa o non parla di BES, DaD, DDI, RAV, GLO, PEI, POF, FO, DOS, DSA, ADHD, FAD, FIS, GLH, GLIP, GOP, IOP; LEA, MOF, LIM, LIS, NAV, GAV, OSA, OF, PAF, PDF, PDP, PECUP, PMOF, PIA, PEP, PNF, POR, PON, PTOF, PSP, ROL, RAV, RE, RSPP, SASI-S, TIC, UdA, USR, UST….è considerato un troglodita. Didattica e corsi di formazione del personale si basano su un impianto costruito su autoreferenzialità e anglicismi, teoremi studiati a tavolino come gli incastri di un mosaico astratto, transfert da logiche aziendalistiche: Prof. Ricolfi in che cosa difetta questa impostazione, analizzando dati e risultati? 

Quando, come oggi accade, gli adempimenti burocratici e il tempo necessario per assimilare le innovazioni (per lo più calate dall’alto), assorbono più del 5% del tempo di lavoro, c’è qualcosa che non va. E quel qualcosa che non va è semplicemente la volontà di potenza e di sorveglianza degli apparati, che ha trasformato la nostra società in una “gabbia d’acciaio”, come a suo tempo previde Max Weber. La burocrazia ha reso la vita sociale profondamente alienante e repressiva, e lo ha fatto senza mantenere la promessa di una maggiore razionalità, come può constatare chiunque osservi le assurdità delle norme che gli apparati pubblici impongono in ogni angolo della nostra vita, non solo sul lavoro.

Trovo che la scuola della mia adolescenza sapeva affiancare la vita, senza forzature: svolgeva la sua parte, in genere con umiltà e in silenzio. Non erano tutte rose e fiori, c’erano difficoltà, ingiustizie, discriminazioni: qualcuno l’ha poi ben evidenziato, scrivendo la sua lettera ad una professoressa e il sessantotto ha scoperchiato molte viltà ma le ‘vestali della classe media’, cioè gli insegnanti di quel tempo, erano le prime vittime della situazione dovendo vivere come i fedeli depositari di una cultura da tramandare in un mondo dove stavano emergendo con forza dei valori diversi: il successo, l’arrivismo, i lesti guadagni, la facilitazione, la stagione dei diritti, l’apertura al sociale, l’egualitarismo irriverente che ha poi partorito i mostri sacri della trasparenza e della privacy, mettendo di fatto le manette ai polsi delle relazioni personali e della comprensione tra la gente. Professoressa Mastrocola, che cosa è successo?

È successo un progressivo svilimento della figura dell’insegnante. Come dice lei, prima svolgeva un lavoro anche umile e sommesso ma enorme, che era quello di insegnare le nozioni basilari del sapere e tramandare l’immenso patrimonio culturale, scientifico e artistico, che ci viene da millenni; un lavoro il cui valore gli era infinitamente riconosciuto dalle famiglie. Ora la società è cambiata, e la cultura oggi non interessa quasi più a nessuno. Molte famiglie, spesso disgregate, distratte, o attratte dalle sirene del consumismo e dei social, demandano tutto alla scuola, chiedono aiuto e sostegni, non certo cultura. Così la scuola si adegua alle esigenze della cosiddetta “utenza” e si piega a essere, perlopiù, un servizio educativo e sociale ad ampio raggio. L’insegnante diventa un educatore, un facilitatore, una figura multi-funzione. E non so come si sentano oggi gli insegnanti, forse molti ondeggiano confusi su quale ruolo interpretare. Ma è certo che di questa confusione paghiamo tutti un prezzo. 

Da quando la scuola – che è luogo di relazioni umane, di socializzazione e di apprendimenti, di conoscenza e trasmissione del sapere – è stata snaturata dalle teorie nuoviste di matrice aziendalista (ben descritta nelle metafore del ‘preside-sceriffo’ e poi ‘capitano della nave’, degli insegnanti funzioni-obiettivo e poi funzioni-strumentali) vi si respira un’aria di irreggimentazione, con una minuziosa parcellizzazione dei ruoli, una logica preordinata e sequenziale di azioni e procedure studiate a tavolino, con un effetto moltiplicatore della burocrazia decentrata secondo i dettami di una malintesa autonomia, una fucina di progetti effimeri e spesso senza esito dove l’enfasi è posta più sul preparare che sul fare. Tutto deve essere misurato, previsto, programmato. C’è gran fervore nel progettare una complessità virtuale che con fatica si trasferisce poi sul piano fattuale: molte riunioni, molte circolari, più tempo dedicato ai corollari che alla didattica in classe: Prof. Ricolfi, l’OCSE pone il sistema scolastico italiano agli ultimi posti delle classifiche sulla solidità della formazione impartita. Non Le sembra da analista dei dati che manchi una rigorosa cultura  della verifica? Del controllo tecnico “esperto”? Di concorsi selettivi per il personale scolastico ed  esami seri per gli alunni? Promuovere tutti non è forse un inganno in danno dei più deboli?

Sì, ma credo anche che i confronti internazionali possano riservare delle sorprese. La scuola italiana è sicuramente più burocratizzata, e più oppressa dalla venerazione delle procedure, di quanto lo sia la scuola in altre società moderne. E’ anche vero che nessun sistema scolastico di tipo occidentale è iniquamente selettivo come il nostro. Però esiste anche un’altra faccia della medaglia, quella che potremmo chiamare delle “minoranze eccellenti”. Nei casi in cui gli insegnanti non rinunciano a trasmettere conoscenze, e nei casi in cui gli studenti sono animati da un genuino desiderio di apprendere, la scuola italiana fornisce ancora livelli di preparazione più alti di quelli della maggior parte degli altri paesi, come testimonia lo stupore dei nostri ragazzi di ritorno da un anno in una scuola secondaria all’estero per il basso livello dei programmi svolti in quelle scuole. E’ questo uno dei motivi per cui, quando emigrano, spesso i nostri ragazzi hanno buone chance di successo (l’altro motivo è che il lusso di andare all’estero se lo possono permettere soprattutto i figli dei ceti medio-alti). Il guaio è che, da noi, tutto il sistema dell’insegnamento è progettato non per includere, bensì per ritardare l’esclusione. Ti promuovo oggi anche se non sai niente, perché sono un insegnante democratico. E me ne infischio che tu domani debba fermarti per le lacune che io ti ho permesso di accumulare, perché a me interessa solo non passare dalla parte dei cattivi. E’ paradossale, ma gli insegnati più severi sono l’unico baluardo contro l’uscita precoce dal sistema dell’istruzione (la cosiddetta dispersione, termine orribile usato per le perdite delle condotte idriche).

La scuola sta perdendo le sue radici storiche e culturali, la tradizione e l’esperienza sono irrazionalmente sostituite hic et nunc dalla folle e spesso improduttiva logica dell’ innovazione tout court. Lungo questa strada stiamo abbandonando discipline come la geografia, espunta dai programmi di studio delle superiori (la sua presenza è ridotta al lumicino: 1 ora la settimana in alcuni istituti tecnici, 3 ore nel biennio del liceo ma trasformata in geo-storia, un mostro culturale riduttivo e tutto da inventare), mentre la storia è quasi estromessa dalle tracce dei temi di maturità (peraltro statisticamente la meno scelta dai maturandi, circa il 3% tra gli ambiti proposti negli ultimi anni) e raramente viene fatta oggetto di approfondimenti che vadano oltre le allegorie delle guerre e delle battaglie. Sta venendo meno il fondamento formativo e l’inquadramento spazio-temporale della cultura tramandata: geografia e storia si stanno spegnendo come gli zolfanelli della piccola fiammiferaia, grammatica, ortografia, sintassi sono orpelli inutili. Prof.ssa Mastrocola conferma questa deriva di impoverimento culturale?

Non sapremo più collocare nello spazio e nel tempo. Più o meno sta già avvenendo: molti, al nome di uno stato o città o catena montuosa, annaspano nel vuoto, non hanno la minima idea del paese, spesso continente, al quale quel luogo appartenga. Poco male, si dice: c’è internet. In effetti uno digita e in tre secondi ha la risposta. Che bisogno c’è di studiare per anni geografia o storia? Così dicono, e così stanno impostando anche la scuola. Il fatto è che la nostra mente è molto più potente di un motore di ricerca: perché elabora nel tempo le nozioni apprese, e questo le consente di fare collegamenti imprevedibili e spesso vincenti: è vedendo i legami nascosti tra cose lontane che l’uomo ha sempre creato, inventato, scoperto. Questa è la forza del pensiero, che noi stiamo azzerando. Lo diceva già FinkielKraut, in un sublime libro nel cui titolo c’era già tutto: La défaite la pensée. Era il  1987! In quanto a ortografia, grammatica e sintassi: fine, le si ritengono cose superate, di una scuola vecchia, antiquata, reazionaria. Già negli anni ’70 la scuola democratica predicava la loro sparizione. Io penso invece che una scuola moderna dovrebbe mantenere in piedi alcuni pilastri imprescindibili, ad esempio l’uso della parola, la capacità verbale, in tutte le sue espressioni. Mettere gli accenti giusti, riconoscere un pronome, sapere il senso di un avverbio, essere capaci di coordinare e subordinare le frasi in un periodo non è semplicemente un frivolo esercizio formale, ma vuol dire possedere uno schema mentale logico, col quale cogliere i livelli polisemici e metaforici di un testo, quindi affrontare meglio gli studi, e la vita.

Prof.ssa Mastrocola, c’è un punto nella sua immaginaria lettera ad un genitore che spiega molto di quanto è accaduto e rende conto di un iniziale barlume di consapevolezza “Lentamente , si comincia a comprendere che programmazione, burocrazia test a crocette hanno spento ogni passione negli insegnanti non meno che negli allievi. Che l’esaltazione degli strumenti digitali a danno dei libri ha impoverito la scuola. E che la guerra dei pedagogisti contro la lezione (bollata spregiudicatamente come frontale) ha reso difficilissima la trasmissione delle conoscenze e delle passioni che alimentano la voglia di conoscere”. Ciò che Lei scrive tocca il cuore del problema e spiega il danno educativo provocato da tutto ciò che in questi anni si è interposto nel rapporto insegnamento-apprendimento (che si sintetizza nella didattica). Un rapporto fondamentalmente umano, che implica consapevolezza dei ruoli, autorevolezza della formazione, comprensione e condivisione nei percorsi di acquisizione e trasmissione del sapere. Da sempre ho in mente una bellissima metafora di cosa è o dovrebbe essere una classe. Quella del pedagogista Luigi Lombardi Vallauri  che pensa alla scuola come “astronave di assorti”: un luogo dove insegnanti ed allievi sono idealmente uniti nell’impegno della meditazione intesa come riflessione sulla vita e sul mondo. Ecco, ci aiuta a comprenderne appieno il significato?

Non so davvero come un insegnante possa insegnare e appassionare senza far lezione! La lezione è il nucleo del suo lavoro, il momento in cui attua al massimo livello l’interazione con gli allievi; è un incontro, un passaggio diretto, una trasmissione, anche emotiva. Lo dice anche Recalcati, nel suo L’ora di lezione (2014), il cui sottotitolo è illuminante: Per un’erotica dell’insegnamento. In una società che non ha più né padri né maestri, l’insegnante può essere quella guida ideale, che trasforma l’oggetto del sapere in un oggetto del desiderio, erotico nel senso più alto della parola eros. Invece ora vogliono fare dell’insegnante un puro trasmettitore di informazioni, un valutatore di competenze, un burocrate, uno che conta le crocette in un test  e compila schede, al massimo un intrattenitore. La pedagogia ha oggi un ruolo eccessivo, predominante e soffocante. Insegnare non è (solo) conoscere i metodi e innovare didattiche: è passare dei contenuti e, per farlo, occorre innanzi tutto una preparazione culturale. “Astronave di assorti” è una definizione che mi piace molto: ripensare la classe come un insieme di persone assorte, pensose, studiose, e non come un gruppo di lavoro impegnato solo in un continuo problem solving. A scuola non si impara (solo) a risolvere problemi, si impara prima di tutto a pensare. Bisogna dare più fiducia al pensiero, dei ragazzi e degli insegnanti: anche se il pensiero è per definizione aereo e imprendibile, non valutabile e non “spendibile” (orrenda parola!) nell’immediato, è un tesoro che si accumula in segreto e che poi darà i suoi frutti. Ma poi, nel tempo. Bisogna dare fiducia anche al tempo, alla lenta maturazione che, come i frutti di un albero, ha bisogno di pioggia e di sole, di concime, di vento e bufere, di estati e di inverni: in una parola, di tempo…

La scuola è stata forse in questi anni il contesto sociale più attraversato dalla massa d’urto del cambiamento ed è successo di tutto, un vero ribaltone generale: molti somari sono passati dai banchi direttamente alle cattedre, molti insegnamenti sono stati giudicati inutili e superflui, molti libri sostituiti dai giornali e dalla ‘cultura della realtà’, molti soloni hanno fatto a gara per stabilire più aggiornati paradigmi culturali fino alle recenti derive delle ‘tre i’ e dell’ondata delle nuove tecnologie, delle nuove educazioni e dei ‘progetti’. Nel vostro libro sostenete una tesi “forte”: che proprio questo tipo di scuola, progressista e basato sulla prevalenza dei diritti sui doveri, sia stata in realtà “una macchina di disuguaglianza sociale”. Il figlio dell’idraulico o dell’operaio non vi trovano più supporti compensativi alle diversità (sociali, di censo, di possibilità economiche) , il diritto allo studio finisce per essere vanificato poiché lo studio e la formazione non sono più mezzi di riscatto e di elevazione sociale.Prof. Ricolfi, ci sono dati su questo vero e proprio fallimento del sistema scolastico?

Certo che ci sono dati, l’ultimo capitolo del libro è dedicato precisamente a ricostruire – dati alla mano – i meccanismi che conducono a infliggere un danno, spesso irreparabile e non risarcibile, innanzitutto ai figli dei ceti popolari. E’ il grande limite della cultura dei diritti nella scuola: il “diritto al successo formativo”, di berlingueriana memoria, si può anche provare ad esigerlo, e magari riuscire ad usufruirne infilando una promozione dietro l’altra.  Quel che si dimentica, però, e che con il diritto al lavoro le cose si complicano: il lavoro cui si ha accesso dipende dalla preparazione, non dal titolo di studio. Cancellare il dovere di studiare, sostituendolo con il diritto al successo formativo, significa far evaporare il diritto al lavoro. L’articolo 1 e l’articolo 34 della Costituzione sono interdipendenti, nel senso che solo se assicura ai capaci e meritevoli la possibilità di raggiungere i gradi più altri degli studi (art. 34), la Repubblica può dirsi compiutamente fondata sul lavoro (art.1). I padri costituenti avevano ben chiaro il nesso fera diritti e doveri, e avrebbero visto con orrore l’ideologia del diritto al successo formativo.

Se al venir meno della funzione di compensazione delle disuguaglianza di opportunità formative aggiungiamo quel mondo esterno a cui i giovani prestano ascolto, quello degli influencer e degli imbonitori di ogni schermo (dalla TV agli smartphone) che raccolgono milioni di followers su tematiche surreali e spesso demenziali, ci si chiede come la scuola potrebbe mai competere rispetto ad apprendimenti fugaci e a nuovi linguaggi. Essa subisce le contraddizioni di  una dimensione virtuale basata su impressioni, opinioni, approssimazioni emendabili, cancellazione della memoria, oblio. Nel nome della semplificazione del presente e della rimozione del passato rischieremo dunque di formare menti acritiche e prive di ogni motivazione alla conoscenza? La scuola perderà anche questa battaglia con il mondo concorrente del web?

La scuola deve competere tenacemente con i social, non adeguarsi o asservirsi! La scuola è esattamente ciò che può offrire ai ragazzi un’alternativa, un altro modo di stare al mondo. Visto che i social invadono già la nostra vita, lasciamo che la scuola sia un luogo totalmente diverso, alieno, non contaminato, non omologato: libero! Solo a scuola si leggono libri, ci si sofferma su una parola, una frase, una pagina, un pensiero, un’idea… Solo a scuola si studiano le poesie, la filosofia, la letteratura antica e tutte le infinite e mirabili opere che l’ingegno umano, in tutti i campi, ha prodotto nei secoli. Se non a scuola, dove mai un ragazzo può incontrare Omero, Dante, Montale, Shakespeare, Thomas Mann (per parlare solo della mia materia…)? Dove? In famiglia? nei centri commerciali? in tivù? su twitter o instagram? per strada? sui giornali? La scuola è un altro luogo, deve conservare la sua specificità, e puntare esattamente a quella, e crederci. E avere quindi il coraggio di lasciar fuori i social, il web, gli smartphone e gli influencer e tutti gli annessi: non sarà per questo meno innovativa e moderna, anzi! La scuola sia una zona libera, un momento di silenzio e riflessione e studio, una pausa di qualche ora al giorno dal caos assordante che c’è fuori. E smettiamola con questa insulsa contrapposizione vecchio/nuovo: ci sono pilastri eterni, su cui dobbiamo continuare a poggiare l’istruzione dei nostri giovani. Altrimenti ne faremo dei servi e dei consumatori seriali, li abbandoneremo all’appiattimento del presente, alla mera e pappagallesca ripetizione di formule preconfenzionate e vuote di ogni senso. La scuola è il luogo dove ritrovare un senso. Abbiamo una cultura sterminata da trasmettere ai ragazzi, che farà migliore la loro vita e li renderà delle persone libere e pensanti, cioè pensanti e quindi libere.

Prof. Ricolfi, la cultura cosiddetta “progressista” ha deriso e demolito la scuola degli apprendimenti basilari: il leggere, scrivere e far di conto sono stati sostituiti dai  “nuovi saperi” che spesso si risolvono in costrutti opinabili, effimeri e senza esito. Un progettificio on-demand dal fiato corto e dagli esiti fallaci. Da quando la scuola organizza corsi di educazione stradale ci sono più incidenti tra i giovani dovuti allo “sballo”, da quando si inocula l’idea dell’identità di genere fluttuante e a libera scelta o si attivano corsi di educazione sessuale crescono gli episodi di bullismo, stalking e stupri di gruppo. Per muovere l’ascensore sociale fermo al piano terra in una società aperta o fluida occorre possedere una cultura solida, una diligente applicazione negli studi, una tassonomia tra gli apprendimenti fondamentali e quelli superflui. Recuperare il senso della vera meritocrazia. Il sistema deve garantire effettiva uguaglianza delle opportunità di accesso e di uscita. In questo ha dunque fallito la scuola progressista della facilitazione e della semplificazione culturale?

Mi pare evidente. Quel che mi stupisce è che ci sia voluto un libro per dimostrare una cosa che è sotto gli occhi di tutti. E ancor più mi stupisce che, a dispetto della quantità di prove che abbiamo riportato, sia sotto forma di ricostruzioni storiche sia sotto forma di analisi statistiche, ci sia ancora qualcuno che non vuole riconoscere nemmeno il nucleo minimo della nostra analisi, che riassumerei in due punti: in cinquant’anni il livello culturale della scuola e dell’università è crollato, e il crollo ha danneggiato soprattutto i ceti popolari. Finché la cultura progressista non riconoscerà questo errore, la macchina della diseguaglianza continuerà a mietere le sue vittima.

L’insegnante deve essere sollevato dal sovraccarico di burocrazia autogeneratasi in questi decenni, deve tornare ad essere l’artefice della didattica intesa come sintesi di insegnamento e apprendimento. E gli alunni devono essere motivati allo studio come fonte di emancipazione personale e riscatto sociale. Il Rinascimento italiano che da più parti si postula come via d’uscita dalla crisi pandemica passa necessariamente da una scuola che sappia recuperare i fondamentali del rapporto educativo. Per fare questo bisogna riconsegnare – metaforicamente – ai docenti le chiavi di accesso alle aule, ai libri, al sapere, alla conoscenza da stimolare e trasmettere e insieme a questo il “gusto” di farlo. Restituendo loro l’immedesimazione in un compito professionale (che è anche funzione sociale) che è andato spegnendosi in una deriva di omologazione culturale. La grande bellezza della scuola    italiana è il sapere ereditato, la formazione del pensiero critico, la cultura che entra passando   attraverso la storia e le tradizioni. Prof.ssa Mastrocola, chiedo a Lei che oltre che docente è anche scrittrice e come tale può creativamente leggere e intercettare le derive future: tutto questo è un’utopia o una speranza?

Temo che sia una splendida utopia. I segnali che vedo intorno a me indicano tutt’altra strada, che poi è la strada intrapresa già da anni. Tecnologia, innovazione, sperimentazione didattica, pedagogismo a gogò, e soprattutto educazione e non istruzione, apprendimento e non insegnamento. Una scuola del fare e dell’utile, rivolta solo al mondo del lavoro. Non una scuola della conoscenza, e del sapere fine a se stesso, non immediatamente spendibile, ma patrimonio culturale cui attingere nella vita, nel tempo. Soprattutto mi pare che la scuola oggi voglia essere più che altro un’agenzia psico-socio-pedagogica, di aiuto e sostegno, non un luogo di trasmissione del sapere millenario. Un luogo di inclusione (parola totem, mille volte al giorno ripetuta come un mantra): ma cosa vuol dire? Nulla più della cultura include, e accoglie, tutti. Ma se voglio solo includere, senza dare cultura, creerò una specie di grande asilo-nido, dove tenere tutti insieme, ma a fare che? Tutti vogliamo includere, nessuno vuole escludere: ma allora perché non farlo proprio attraverso la cultura? Perché la parola cultura non viene mai pronunciata nei discorsi sulla scuola? Eppure la scuola è – è stata e dovrebbe essere sempre – il luogo primo della cultura, primo anche nel senso temporale, perché è il luogo dove prima s’incontra.  Bisognerebbe che gli insegnanti si riprendessero il loro ruolo culturale, che amassero loro per primi lo studio e la conoscenza, che insorgessero contro questo asservimento passivo alla società. È dagli insegnanti che deve partire la rivolta, secondo me, riconquistando una loro dignità professionale. Questa è l’unica speranza che ho. E la speranza non muore mai. Non saremmo qui a parlare ancora di scuola, se non avessimo speranza.

 

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Paola Mastrocola

Paola Mastrocola ha esordito con il romanzo La gallina volante (2000), vincitore del premio Calvino. Finalista al premio Strega nel 2001 con Palline di pane e vincitrice del premio Campiello nel 2004 con Una barca nel bosco, ha pubblicato, tra gli altri, La scuola raccontata al mio cane (2004), Che animale sei? (2005), Più lontana della luna (2007), La felicità del galleggiante (2010), Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (2011), Non so niente di te (2013), L’esercito delle cose inutili (2015), La passione ribelle (2015), L’amore prima di noi (2016) e Leone (2018).

Luca Ricolfi

Luca Ricolfi (Torino, 1950), sociologo e docente di Analisi dei dati, ha fondato la rivista di analisi elettorale “Polena” e l’Osservatorio del Nord Ovest. Attualmente è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Fra i suoi libri: Perché siamo antipatici? (2005), Tempo scaduto. Il contratto con gli italiani alla prova dei fatti (2006), Illusioni italiche (2010), Il sacco del Nord (2012), La sfida. Come destra e sinistra possono governare l’Italia (2013), L’enigma della crescita (2014, 2020), Sinistra e popolo (2017). Per La nave di Teseo ha pubblicato La società signorile di massa (2019), vincitore del premio Biella letteratura e industria – Giuria dei lettori e del premio Città di Como – Sezione Saggistica.