Il gioco si fa duro?

Il cammino del governo Draghi è costellato di buoni propositi e cattivi comportamenti. Nessuno vuole abbassare le sue bandierine nel timore di perdere appeal nella contesa elettorale del prossimo autunno.

 

Paolo Pombeni

 

Non che far funzionare a pieno ritmo la campagna vaccinale o mandare in tempo e in forme adeguate il PNRR a Bruxelles sia stata un’operazione facile. Però Draghi ha potuto contare, sia pure solo in parte, sul clima della cosiddetta “luna di miele” di chi inizia un’avventura politica. E poi c’era un po’ sempre la spada di Damocle di un possibile, per quanto difficile scioglimento della legislatura con rinvio di tutti alla prova delle urne: un esito di cui a parole nessuno ha paura, ma che in realtà tutti temono moltissimo.

 

Adesso però la luna di miele è finita e l’ipotesi di una conclusione anticipata della legislatura a due mesi dall’inizio del semestre bianco appare surreale. Invece si moltiplicano le decisioni che il governo deve prendere, mentre i partiti sono impegnati in una campagna elettorale per le amministrative che è densa di incognite. Tutto questo crea un clima poco favorevole alle intese che pure sarebbero necessarie.

 

Ci sono alcuni nodi da sciogliere che sono evidenti e ce ne sono altri che sono meno percepibili. Al primo genere appartengono i piani per le tre riforme che la UE ci impone per dare l’avvio ai finanziamenti del Next Generation UE: giustizia, fisco, pubblica amministrazione (a cominciare dalle semplificazioni). Su tutte e tre abbiamo già visto attivarsi la competizione fra partiti che sono vittime delle narrazioni che hanno sparso ai quattro venti negli anni passati. Perché è inutile nasconderselo: se sostieni per anni che senza una certa impostazione crollerà il palco, poi diventa difficile fare marcia indietro. Dovresti poter contare su leader con una credibilità personale così alta da far digerire agli elettorati qualsiasi cosa e contemporaneamente da tenere sotto controllo il proliferare di fazioni che c’è in ogni partito. Merce rarissima di questi tempi.

 

Sulla giustizia, l’abbiamo già scritto, c’è lo scoglio dei Cinque Stelle che Conte non è in grado di mettere in riga e che Letta continua a ritenere un alleato indispensabile per cui gli si deve concedere tutto. Sul fisco c’è la solita contrapposizione fra ideologie da fumetti: togliere ai ricchi per dare ai poveri contro diminuire drasticamente le tasse a tutti per realizzare il paese di bengodi. Sulla riforma della pubblica amministrazione sono a parole tutti d’accordo, salvo che quando scendi nel dettaglio ti accorgi che è tutto maledettamente complicato. Esemplare la storia degli appalti: un sistema barocco che serve solo ad intasare i TAR e a non far partire i lavori, ma che non si può riformare perché ogni abolizione di clausole preventive di sbarramento è vista come un favore verso la criminalità organizzata e il malaffare.

 

Eppure Draghi ha assoluta necessità di realizzare quelle riforme, altrimenti si mette a rischio tutta la macchina dei finanziamenti, ma nessuno vuole abbassare le sue bandierine nel timore che questo risulti pregiudiziale nella contesa elettorale d’autunno. Molti osservatori ritengono che il premier non abbia problemi a tirare dritto per la sua strada lasciando ai partiti lo spazio per dar sfogo a vuoto lle varie propagande. E’ sicuramente così da vari punti di vista, ma da altri la questione è differente.

 

Perché adesso Draghi deve mettere mano ad una lunga serie di nomine nelle aziende pubbliche e partecipate.

 

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