Il Maestro che non voleva discepoli

Michel de Certeau storico della spiritualità, antropologo e sociologo della vita quotidiana

Tratto dall’edizione quotidiana dell’Osservatore Romano a firma di Luigi Mantuano

Nella lunga intervista che ha concesso al direttore di «Civiltà cattolica» Antonio Spadaro nel 2013, Papa Francesco ha dichiarato che i due pensatori francesi contemporanei che predilige sono Henri-Marie de Lubac e Michel de Certeau. Il nome di quest’ultimo, storico e gesuita francese, in Italia circola da decenni e le sue opere sono state tutte tradotte in italiano fin dagli anni Settanta e ristampate più volte, tra queste La scrittura della storia, Fabula mistica, Storia e psicoanalisi, L’invenzione del quotidiano. Saccheggiato, utilizzato più o meno esplicitamente da tanti, resta in realtà un autore poco letto in Italia, soprattutto per la sua natura inafferrabile.

Michel de Certeau (1936-1986), il maestro che non voleva discepoli, come un fiume carsico ha attraversato le frontiere e i confini di territori culturali ed esistenziali profondamente diversi tra loro, dall’epistemologia della storia alla psicoanalisi, dall’antropologia alla letteratura dei mistici, dalla linguistica all’analisi sociologica della vita quotidiana. Gesuita fino alla fine della sua vita, ha incrociato i luoghi cruciali della cultura europea e dialogato con Michel Foucault, Marc Augé, Paul Ricoeur e al suo funerale volle che fosse eseguita Je ne regrette rien cantata da Edith Piaf.

Francoise Dosse gli ha dedicato una poderosa biografia uscita in Francia per La Découverte nel 2002. Conosciuto soprattutto come uno storico che ha analizzato il linguaggio dei mistici con edizioni critiche di testi e studi sulla spiritualità del XVII secolo, molte sue opere raccolgono riflessioni sul rapporto tra il cristianesimo e la modernità e ci permettono di conoscere in modo più ampio questa poliedrica figura di storico per il quale il viaggio continuo attraverso i testi dei mistici del XVII secolo e sulla scrittura della storia hanno significato in realtà la continua ricerca dell’essere cristiani nella pluralità delle culture contemporanee.

L’opera di Certeau si presenta come un viaggio nei sentieri dell’alterità. «Io sono solamente un viaggiatore. Non solo perché ho a lungo viaggiato attraverso la letteratura mistica (e questo genere di viaggi rende modesti), ma anche perché avendo fatto, in veste di storico o di ricercatore di antropologia, alcune peregrinazioni attraverso il mondo, ho imparato, in mezzo a tante voci, che potevo solamente essere un particolare fra molti altri, raccontando soltanto alcuni degli itinerari tracciati in tanti paesi diversi, passati e presenti, dall’esperienza spirituale».

Se nei lavori su Jean-Joseph Surin e Pierre Favre aveva eruditamente fatto parlare gli altri, nei saggi che compongono Lo straniero o l’unione nella differenza, scritti tra il 1963 e il 1970, riflette e scrive sulla sua ricerca personale, reso consapevole dalla frequentazione assidua delle autobiografie dei mistici del fatto che «parlare da professore non è possibile quando si tratta di esperienza (…). Quando si tratta di Dio, il testimone è un designato da chi lo invia, ma è anche un mentitore: egli sa bene che, pur senza poter parlare diversamente da come fa, nondimeno tradisce colui di cui parla. Verrebbe meno quindi alla verità se presumesse di presentarsi come un testimone».

Il suo pensiero è profondamente legato a una teoria della verità intesa come relazione con l’alterità. Ogni identità si costruisce nel suo rapporto con l’Altro e la stessa esperienza di fede vive di questa dinamica. Ciò comporta un’appassionata attenzione a tutto quello che gli può aprire nuovi orizzonti, così ogni arrivo in un luogo per Certeau è soltanto una tappa per una nuova partenza. L’esperienza mistica è stata sempre tesa alla ricerca di un luogo dove Dio si troverebbe; il monastero, il giardino, il castello, “l’interno” dell’anima, sono alcuni dei luoghi che la storia della spiritualità ci ha indicato. Tuttavia l’assenza è quella che spinge sempre ad andare oltre rendendo vano ogni tentativo di creare “regioni” spirituali o topologie psicologiche dove trovare Dio: «Come non v’è sul suolo terrestre un luogo che si possa designare come il paradiso, così non v’è, nell’organizzazione di una psicologia umana, nessun luogo particolare che possa essere indicato come quello della verità… Certo, il trovare un luogo può essere il punto di partenza di un’esperienza spirituale. Ma è impossibile restarci».

Amante appassionato della storia, della psicoanalisi e dell’etnologia (le chiamava “le scienze dell’Altro”), viaggiatore instancabile attraverso continenti e culture diverse de Certeau è sempre mosso, nella scrittura delle sue opere come nell’esperienza spirituale, dalla nostalgia dell’assente: «L’assente fa scrivere (…) Si è malati di assenza perché si è malati dell’unico. L’Uno, non c’è più. L’hanno portato via, dicono numerosi i canti mistici che, raccontandone la perdita, inaugurano la storia dei suoi ritorni». L’assente ossessiona i nostri luoghi e il nostro desiderio. Certeau aderisce all’École freudienne di Jacques Lacan dalla sua fondazione fino alla sua chiusura e descrive la storia come il racconto di un morto, una costruzione che è sempre resa inquieta e provvisoria dall’assente che le sfugge e non si lascia ingabbiare nelle coordinate socio-economiche e nei dati statistici, proprio come il rimosso che ritorna e si racconta nella seduta psicoanalitica. Storia e psicoanalisi, raccolta di saggi pubblicata in Italia da Boringhieri nel 2006, sviluppa questo metodo storico soprattutto nell’analisi della letteratura dei mistici, attestando il suo debito nei confronti di Michel Foucault e Jacques Lacan.

Se la scrittura e l’esperienza di de Certeau si sviluppano intorno a un’assenza essa non è una perdita ma proprio ciò che fornisce ogni orizzonte di senso, è l’assenza quella che rende vitale il presente perché ci spinge verso la scoperta dell’Altro: «Nell’itinerario o nell’incoerenza di ogni esperienza personale, ogni istante di verità — esperienza affettiva, delucidazione intellettuale, incontro con qualcuno — perderebbe il suo significato se non fosse ricollegato ad altri e in definitiva all’Altro». Siamo diventati tutti stranieri perché nessuno di noi può sottrarsi al viaggio verso una nuova identità.

De Certeau, attentissimo lettore e conoscitore di Hegel, sa che questo viaggio nell’Altro implica sempre vivere la contraddizione e gestire il conflitto: «La coscienza dell’alterità è legata a quella della propria situazione storica particolare, che è coscienza del limite e del conflitto». Se l’alterità è quella che definisce il senso è anche vero che essa è una minaccia perché esistere significa ricevere dagli altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà. «Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro».

Negli anni Sessanta, quando la storia politica stessa del mondo trasferì in metafora collettiva la novità dell’utopia e la Chiesa è investita dal rinnovamento conciliare, de Certeau esplora i sentieri della differenza innanzi tutto nell’opera storiografica sul mistico gesuita Surin ma a essa affianca il dialogo con l’antropologia, la sociologia e la psicoanalisi, dialogando con Foucault, Klossowski, Lacan, Derrida, Ricoeur e Levinas. La sua convinzione è che il conflitto sia il luogo della rivelazione: «Dio agisce quando insorgono non solo delle avversità, ma degli avversari. Egli è là, immischiato nella nostra vita, e ci riporta con sé nello spessore di questa storia umana in cui la molteplicità contraddittoria delle funzioni ci insegna a un tempo l’umiltà del compito che ci è proprio (…) e la vita prodigiosa del Dio che ci inventa il nostro destino attraverso tanti operai così diversi», come scrive ne Lo straniero o l’unione nella differenza. Due volumi raccolgono gli scritti di quegli anni, La culture au pluriel e La prise de parole, nelle quali si schiera a fianco delle lotte studentesche di quegli anni e teorizza una cultura propria delle masse popolari.

Se la fede stessa è l’essere inquietati dall’incontro con l’Altro il credere implica la rinuncia al possesso anche della propria identità. La debolezza del credere raccoglie scritti fondativi di de Certeau sul rapporto tra cristianesimo, cultura, politica e società. La modalità dell’essere testimoni del Vangelo in politica diventa quella dell’incontro e del riconoscimento delle differenze e non quella della conquista. Non si tratta di un pensiero e di una fede “debole”, ma del riconoscimento della forza dell’azione dello Spirito all’opera nel mondo, nelle pratiche della vita quotidiana della gente comune. L’identità cristiana, disciolta come una goccia nel mare, anima le politiche e le poetiche del quotidiano.

Se l’opera di de Certeau è un pensiero della complessità e del conflitto è anche un pensiero ottimista e che non disprezza il nuovo che si manifesta nel mare anonimo della quotidianità. Ne La culture au pluriel scrive che «La vita quotidiana è cosparsa di meraviglie, di seduzioni altrettanto seducenti (…) di quelle degli scrittori e degli artisti» ma — commenta Luce Giard — «se egli vede ovunque queste meraviglie, è perché è predisposto a coglierle, così come Surin nel XVII secolo era pronto a incontrare “il giovane cocchiere analfabeta” che gli avrebbe parlato di Dio con più forza e saggezza di tutte le autorità delle Scritture e della Chiesa». Se gli scritti sulla storia della mistica sono popolati da illetterati illuminati, idioti, possedute e emarginati, gli scritti sulla cultura ordinaria narrano le pratiche dell’uomo comune: il leggere, il passeggiare, il fare la spesa; di entrambe de Certeau evidenzia le azioni di micro-resistenza che queste tattiche e modi di fare impongono all’ordine costituito, aprendo uno spazio altro.

Perché per il gesuita de Certeau la storia è «un fenomeno erotico» e la politica richiede un’adesione amorosa alla comunità degli uomini: «Per corpo si intende il corpo sociale, è chiaro, ma esso funziona nella storia proprio come il corpo che la mano cerca con le sue carezze, estraneo al dominio dello spirito, altro dal pensiero (…) in definitiva, il corpo è l’Altro che dà la parola, ma al quale la parola non viene data. E occorre risalire a questo corpo — nazione, popolo, ambiente — il cui cammino ha lasciato le vestigia con le quali lo storico produce una metafora dell’assente».

Il cristiano e l’uomo di oggi, come Robinson Crusoe sulla spiaggia deserta, si mette sulle orme alla ricerca dell’Altro.