Da quando il linguaggio si è evoluto ho sentito molte perorazioni verso i doveri sociali: aggregazione, motivazioni, campi progressisti, “cose nuove”, check-up, check-in, diagrammi dinamici, flow chart, flussi comunicativi, role playing, outsourcing, decision making, change management, climax, follow up.

Per non parlare dei tavoli: di concertazione, discussione, contrattazione. Si aprono tavoli ovunque.
Parole che circolano in molti contesti, sono assai gettonate, suscitano fervore ma come mai i risultati tardano a venire? Forse dipende anche questo dal buco nell’ozono, oppure è un effetto perverso della globalizzazione?

Ai tempi di mio nonno bastava una stretta di mano, la parola data era sacra, guai a venir meno a un impegno: adesso vai in banca e il giorno dopo ti accorgi che le postille a piè di pagina complicano l’atto che hai appena sottoscritto. Se non te ne accorgi rischi di andare in rovina. Non parliamo di mutui, certificati medici, pensioni e diritti acquisiti: mi pare di aver sentito dire che le manovre finanziarie si fanno senza mettere le mani in tasca agli italiani: come mai allora sono quasi tutte bucate? Certe frasi i politici potrebbero risparmiarsele, hanno le fattezze palesi della spudorata presa per i fondelli.
Il paese è allo sbando: magari tassando la plastica e risparmiando sulle mense scolastiche si coprirà il deficit.

L’Italia è una delle poche nazioni al mondo a non aver avuto la sua rivoluzione e forse dipende dalla nostra abilità ad arrangiare sempre le cose.
Eppure c’è chi giura che presto o tardi il Balilla di turno scaglierà la prima pietra: non se ne può veramente più. Credo proprio che ne basti uno: poi scenderebbe in piazza un fiume in piena.
Tra il caldo e le liti di palazzo abbiamo passato un’estate indimenticabile: ho sentito un politico dire che “c’è stata una decomposizione nel quadro dei partiti”. Forse voleva dire ‘sparigliamento’ ma ha usato involontariamente un termine più adatto: la politica è morta e ormai siamo in pieno verminaio.

Per salvare il governo in molti si presentano col cappello in mano: non esce nessun coniglio bianco ma qualche obolo ci scappa lo stesso. Faranno il partito dei siciliani, i popolari liberali, quelli democratici, i nordisti, i moderati di sinistra, quelli di destra e quelli trasversali: peccato che si tratti di popolari senza popolo. Ci sono pure le sardine ma presto saranno divorate dai pescecani.

Per curiosità morbosa ho presenziato in ultima fila ad un’assemblea politica, oltre due ore di manfrine per spaccare il capello in quattro: se perdiamo lo 0,2 nel tal paese forse recuperiamo lo 0,3 in quell’altro. Nessuna parola sulle idee, sui contenuti, eppure bastava alzare lo sguardo al soffitto: c’era scritto ‘pace’….‘lavoro’….’libertà’, era sufficiente aggiungere ‘giustizia sociale’ e ‘tutela ambientale’ e il programma era bell’e fatto.
Il consenso della gente si acquisisce durante l’esercizio del mandato politico, non in campagna elettorale, eppure questo malvezzo si allarga a macchia d’olio, non è più prerogativa dei palazzi romani.

Sento anche molti elogi per l’avvicendamento nella gestione politica: dal centro-destra al centro sinistra ma penso che sia un fenomeno di autosuggestione, una specie di Fata Morgana che fa vedere quello che non c’è. Nessuno se n’è accorto: nelle città le strade sono sempre più sporche e dissestate, le periferie desolate e anonime, dopo una certa ora scatta il coprifuoco, si moltiplicano le rapine, gli stupri, le esecuzioni per strada, le truffe agli anziani e le aggressioni, se ti fermi a chiedere l’ora l’interlocutore ti ignora o affretta il passo per paura.

Ho sentito il programma elettorale di un aspirante sindaco: “voglio una città meno cattiva”. Da tempo non ascoltavo una frase tanto sensata e calzante: si adatta perfettamente ad ogni contesto metropolitano, chissà che non venga raccolta l’idea anche altrove.
E poi c’è la vicenda dei senza casa, tutti dicono che ne hanno diritto ma alla sera sprangano ben bene il portone della propria: “non mi compete”.
Circola con insistenza la formuletta di rito: “bisogna coniugare equità e rigore”, i più trasgressivi parlano di “risanamento e sviluppo”.

Ma chi parte per primo? Chi applica a se stesso ciò che chiede per gli altri? Da dove veniamo lo sappiamo già ma c’è qualcuno che ha una pallida idea su dove stiamo andando?
Non siamo in epoca di guelfi e ghibellini, figuriamoci di bianchi e di neri: il grigio è una tinta cangiante, ha tante sfumature, copre bene le magagne e pure tante ipocrisie.
Tutto è ispirato a questa nuova tendenza, perché il grigio è incolore, senza speranza: i rapporti tra noi, la diffidenza, il rancore, l’invidia per chi sta meglio, la pietà pelosa per chi sta peggio.

E soprattutto l’egoismo e la solitudine: sono loro gli abitanti più illustri di questa sorniona, indifferente società.