La corsa alle elezioni anticipate in una Spagna segnata dalla radicalizzazione politica

La campagna elettorale sarà breve ma durissima, con i due fronti armati - quello dei Socialisti e quello dei Popolari - pronti a usare parole d’ordine definitive, escludenti, probabilmente offensive. Ne trarrà vantaggio la Spagna?

La durissima sconfitta elettorale patita dalla Sinistra spagnola nel turno amministrativo del 28 maggio (nelle grandi città e in molte regioni del Paese) non è il frutto di una qual certa insoddisfazione dell’elettorato per i non brillanti risultati economici conseguiti dal governo di Pedro Sanchez. Che non sono affatto negativi: il PIL in questi anni è cresciuto e la disoccupazione è diminuita. Nulla di clamoroso, si intende, ma obiettivamente è difficile esprimere un giudizio rigorosamente negativo della politica economica attuata dalla Moncloa. Anzi, se si considera il fatto che l’esecutivo si regge sin dal 2019 sull’appoggio esterno di forze regionaliste (ancorché schierate a sinistra) basche e catalane e che di recente ha patito pure un’ulteriore scissione di Podemos, il partito alleato del PSOE di Sanchez, bisogna riconoscere a quest’ultimo una buona capacità di navigazione parlamentare per ottenere i voti necessari a procedere con le sue scelte. E ora la sua mossa a sorpresa, ovvero la convocazione anticipata dei comizi elettorali di metà luglio ne dimostra la lucida freddezza: solo drammatizzando la situazione Sanchez può sperare di far tornare alle urne i molti elettori di sinistra che domenica scorsa le hanno disertate. E che peraltro potrebbero non bastare, perché la sconfitta del 28-M (come è uso scrivere in Spagna) ha almeno due motivazioni di quelle assai serie per chi le subisce, in questo caso la Sinistra.

La prima è di natura politica: si è concluso un ciclo, iniziato oltre dieci anni fa con la protesta de “los indignados”, avviata alla Puerta del Sol di Madrid, al km zero da dove si irradiano le strade di Spagna, dai giovani che inaugurarono quella stagione e che qualche tempo dopo, sotto la guida di uno di loro, Pablo Iglesias, fondarono Podemos. Un movimento dal successo immediato, ma destinato a rivelarsi effimero nel tempo (qui in Italia vi fu chi prontamente tentò di imitarlo, senza successo, nemmeno effimero) in quanto radicato sulla protesta e non sulla proposta. Non solo: il movimento presto si fece partito e pur conseguendo discreti risultati elettorali si avviò su una strada che lo condusse a perdere ogni carattere di novità, ogni freschezza. Divenne lo strumento personale di Iglesias e ancor più della ambiziosissima sua fidanzata Irene Montero (oggi ministra nel governo Sanchez), un centro di potere che condusse lo stesso Iglesias alla vicepresidenza del Governo, ma pure ad una prima spaccatura nel partito operata ai danni di uno dei suoi co-fondatori, Inigo Errejòn. 

Parliamo dell’ideatore della narrazione dicotomica “popolo-casta” che aveva emozionato molti spagnoli, specie giovani, illudendoli sulla possibilità di “cambiare” davvero la società, come spesso accade all’avvento di una nuova classe politica che si vuole davvero popolare in quanto nata nelle piazze e con esse desiderosa di rimanere unita, portandole anzi dentro la cittadella del potere. Sino al tentativo del leader di essere eletto alla presidenza della Comunità di Madrid, nel 2021, fallito e seguito dalle sue dimissioni dal governo e dal ritiro (temporaneo?) dalla politica. Ma la parabola discendente avrebbe dovuto vedere anche un’ulteriore spaccatura, con la nascita da una costola di Podemos (o meglio di Unidos Podemos, coalizione di estrema sinistra poi rinominata Unidas Podemos, rigorosamente al femminile) del nuovo movimento Sumar, che ora vuol farsi partito, col risultato che entrambe le sigle stanno correndo il rischio di consegnarsi all’irrilevanza. Insomma, il solito frazionismo a sinistra che conosciamo bene anche qui in Italia.

Ora Sanchez deve in un paio di settimane al massimo favorire una loro riunione in vista delle elezioni di luglio. Lo spettro che agiterà sarà un governo del Partido Popular e dell’estrema destra di Vox, partito nato pochi anni fa da una scissione a destra dello stesso PP, già di per sé un partito assai meno moderato dei Popolari europei aderenti al PPE. 

La seconda motivazione della sconfitta della Sinistra è d’ordine per così dire culturale: sono sempre di più gli spagnoli che non condividono e spesso aborrono la linea radicalmente laicista dell’esecutivo di Sanchez, che ha ripreso e sviluppato – sotto l’impulso imperioso di Podemos e in particolare della sua componente “femminista” – la spinta sui “diritti individuali” che già fu del governo socialista di Zapatero negli anni zero del nuovo secolo. In particolare ha generato forti dissensi la “Ley trans”, che consente di autodeterminare la propria identità di genere a partire dai 16 anni di età senza alcun certificato/consenso di alcun tipo; e così pure la legge sul diritto all’eutanasia.

Questa radicalizzazione generalizzata a sinistra ha comportato una simmetrica radicalizzazione a destra: i Popolari, subendo la concorrenza del nuovo partito di destra Vox, hanno dunque a loro volta radicalizzato il proprio profilo; tentativo analogo ha fatto Ciudadanos, il partito di Centro che ai suoi albori aveva ottenuto buoni risultati, ma che poi ha virato verso destra, anch’esso succube del radicalismo imperante, col risultato di perdere i suoi elettori, tornati alla “casa madre” popolare.

Ora la campagna elettorale sarà breve ma durissima, con i due fronti armati l’un contro l’altro all’insegna di parole d’ordine definitive, escludenti, probabilmente offensive: la partita, nonostante il risultato delle amministrative, è aperta. All’insegna dello scontro, totale. Una domanda sorge: ma è un bene per la Spagna?