Il 1968 è normalmente ricondotto a considerazioni sociologiche o storico-sociologiche, alla rivoluzione dei figli del benessere o a quella degli underdog: donne, negri e svantaggiati vari. Penso che valga la pena di considerare la cosa nelle sue radici spirituali: se è vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini, è anche vero che sono le idee a plasmare le coscienze e credo illuminante considerare il watershed del 1968 per il contenuto che in esso s’afferma. 

Le due cose che colpiscono sono la sostituzione alla realtà della sua percezione e la identificazione del diritto col desiderio. Alle quali cose s’accompagna il rifiuto di accettare obbligazioni che non siano assunte volontariamente, ma nascano dalla situazione di fatto e dalle conseguenze delle nostre scelte. Perché dovrei restare con un coniuge che s’ammala e mi riduce a infermiere o mi costringe a fare da sostegno economico unico della famiglia? Il che s’accompagna a una percezione del futuro distorta: non ho da investire sul futuro, se sono un operaio da trasformare mio figlio in geometra e mia nipote in magistrato, perché qui, ora, abbiamo diritto a tutto. Non sono nella famiglia cellula, ossia unità vivente della società, ma la vivo come somma di individualità, e la stessa individualità è unità numerica: siamo uguali tra noi non nella dignità della persona, ma nell’indifferenziazione qualitativa di quell’astrazione che è l’individuo privato delle sue determinazioni di coscienza, ossia l’individuo dell’antropologia radicale, insofferente d’ogni vincolo alla sua unicità. 

Credo che uno qualsiasi dei relatori di oggi possa dare le coordinate sociologiche del sessantotto, definire il suo portato della sostituzione della percezione psicologica alla realtà, che sottende tra l’altro la cultura del gender, descrivere l’identificazione del diritto col desiderio, fino all’assurdo snaturamento dei diritti sociali a sostegno delle più varie aspirazioni, richiamare il rifiuto delle gerarchie e la ribellione contro le obbligazioni nate dalle situazioni e come conseguenza di altre scelte, senza essere esplicitamente volute. 

Credo anche che qualsiasi reduce del sessantotto ricordi lotte per la giustizia, lotte per la libertà o magari occupazioni delle scuole, attraenti perché fatte da ragazzi e ragazze insieme. Slogan come “l’immaginazione al potere”, “siamo realisti, vogliamo l’impossibile”, o “questa non è una pipa”. Ricorda il mito della rivoluzione declinato in salsa politica, sessuale, culturale, o la sostituzione del manzoniano lei col democratico tu. Magari ricorda temi veteromarxisti come la lotta contro la scuola di classe. Antiamericanismo, Vietnam, Cina vicina, Chiesa dell’abbandono del latino e della collegialità, lamento per la rivoluzione mancata del dopoguerra, tradimento del PCI, riedizione della guerra civile: un elenco incompleto che sembra l’arte dei pazzi. Tutto è politica, la libertà è partecipazione, sono slogan d’allora restati luoghi comuni per un mentre, il secondo si sente ancora oggi. Nascono icone improbabili come Castro e Guevara. 

Il passato nel sessantotto 

Ma tutto questo è il passato presente nel sessantotto. Non è Marx il suo nume, non è Mao e nemmeno l’insignificante Marcuse, nel quale Panfilo Gentile non riusciva a trovare un briciolo di originalità. Il futuro permanente del sessantotto è nell’antropologia radicale, l’elemento drammatico è la visione dell’essere umano congiunta con la percezione del diritto. 

Nel messaggio del movimento sessantottino si danno due prospettive antropologiche contraddittorie. Da un lato ha ereditato lo statalismo e il socialismo ch’erano diventati eredità e sentire comune dopo la Grande guerra, insieme al rifiuto dell’ideale dell’individuo responsabile nella autonomia della coscienza, ma anche impegnato a far sì che la retta intenzione della sua coscienza sia pure una coscienza retta. I movimenti nati dalla guerra, comunismo, fascismo, nazismo e i loro emuli, più in generale i movimenti populisti e socialisti, avevano affermato l’obbligo della partecipazione, intesa come mobilitazione e lotta collettiva, più che come azione responsabile individuale. A essi s’accompagna la superstizione della necessità del divenire storico, d’un cammino per il quale successivo è sinonimo di migliore (come se Vasco Rossi possa essere migliore di Bach). È un altro frutto avvelenato, nel quale perdura la cultura dello storicismo per il quale il più recente è anche meglio. 

Il suo sottofondo è un’antropologia che fa della coscienza la risultante dialettica di forze oggettive, che siano quelle della psiche o quelle sociali o le forme universali del pensiero, la persona si riduce alla sua partecipazione al gioco di esse forze ed è riassorbita nel ruolo, risolta nelle sue relazioni. La libertà diventa partecipazione. La coscienza di libertà coincide con una lotta di liberazione, ossia con la partecipazione a un processo oggettivo. Liberare significa rendere capaci di partecipare, di assumere una posizione in una lotta sociale di liberazione o in una lotta psicologica di liberazione. 

Il problema è costituito dal fatto che questa è una definizione negativa della libertà, che non è vista nell’assumere una forma appropriata, ma nell’avere un ostacolo da superare, da un lato è concepita come un togliere catene, non come una direzione da prendere, da un altro come condividere una direzione di lotta, farsene strumento. 

Il futuro del sessantotto 

La novità però è altrove. Nel 1964 il Governo laburista cambia il diritto di famiglia, liberalizzando nel Regno Unito il divorzio, nel 1970 questo è istituito in Italia; nel 1967 la legge britannica legalizza l’aborto, nel 1973 nella causa Roe contro Wade la Corte Suprema, cinque contro quattro, proibisce di proibire l’aborto sotto la Costituzione degli Stati Uniti, nel 1978 la Corte Costituzionale italiana segue il trend aprendo la strada al Parlamento. I referendum del 1974 e del 1981 dimostrano queste nuove prospettive largamente maggioritarie. Se il diritto di natura coincide con l’attesa media di giustizia, questa nuova percezione lo rifonda. E infatti oggi s’arriva a dichiarare negatore del diritto di natura chi s’opponga al così detto diritto di scelta della donna o sollevi obiezioni alla famiglia gay. Al centro è l’astrazione dell’individuo presentata come diritto della persona. Spesso i cattolici si contentano che quest’ultimo termine sia usato nelle dichiarazioni del diritti, sapendo bene che è un termine loro, coniato per parlare della Trinità. Ma il contenuto reale è spesso la negazione dell’intuizione cristiana, per la quale è persona semplicemente l’essere umano, coincide con la sua esistenza in atto e la sua realtà è indipendente dalla percezione soggettiva che ne abbiamo. 

Quale antropologia? 

Mi spiego. Noi abbiamo tre diverse percezioni di noi stessi. Da un lato siamo la percezione empirica, dalle caratteristiche fisiche ai sentimenti e desideri. Da un secondo punto di vista siamo esseri pensanti, che si riconoscono come tali attraverso la mediazione del pensato: pensiamo un contenuto e ci riconosciamo in chi pensa quel contenuto, riconosciamo le leggi logiche che reggono il pensiero. Esse sono anche il framework nel quale si costituisce la società umana e, come dice Kant, sono il riferimento d’un ordine di pace interna e internazionale. 

La teoria dei diritti si è plasmata su queste due percezioni: l’individuo empirico e la sua capacità di pensare. L’individuo è persona se ha la capacità di pensare. Se non l’ha ancora raggiunta, non è 

persona – che è il sofisma per negare il diritto alla vita del concepito. Edmund Burke, di fronte alla teoria dei diritti della rivoluzione francese, ne nota il carattere astratto, ch’essa condivide con l’idea dei diritti come verità autoevidenti affermate nella Dichiarazione d’indipendenza americana, e nota come questa astrazione serve a negare il carattere empirico della politica e a fondare un processo di scristianizzazione. Se è autoevidente il mio diritto, io non sono un dono di Dio, ma una entità autosufficiente. (Talmon riconoscerà l’origine della democrazia totalitaria.) 

Idealisti e positivisti la pensano diversamente sul pensiero, ma alla fine la loro antropologia riduce la persona alla sua realtà empirica e alle forme della sua coscienza. Tuttavia la realtà empirica non è che registrazione del dato di fatto, non può giustificare la contrapposizione ad esso d’un dover essere che di fatto non è. Il fondamento morale si riduce alla forma della coscienza e, se essa è interpretata a partire dalla sua percezione della realtà, è questa percezione a costituire il fondamento etico. Non la realtà, la sua percezione. La distinzione cattolica tra una coscienza sincera e una coscienza retta diventa impossibile, tutto quello che è naturalmente possibile, perché materialmente o logicamente tale, è anche naturale, nel senso di buono o, meglio, al di là del bene e del male. Quando Paolo VI disse che la pillola nega la finalità naturale dell’atto sessuale, che avesse ragione o no, non fu capito, perché pochi continuavano a vedere nella natura fini e obbligazioni e non il campo nel quale e sul quale si esercita il nostro arbitrio. 

Non ho dimenticato la terza percezione di noi stessi. Ne parlo solo ora perché non è un orizzonte comune, non tutti riconoscono infatti l’autointuizione di sé come unità spirituale irriducibile ad altro, che ha un corpo, ha un cervello e una capacità di pensare, ha una natura, ma è un chi, è se stesso non nelle sue qualità, ma nella volontà che guida quella natura, nella disposizione al dono di sé – amore – o alla negazione di sé – odio. La Trinità è comunione perché le tre persone si definiscono solo nel rapporto reciproco: il Padre si pensa ed è tale rispetto al Figlio e il Figlio rispetto al Padre, lo Spirito è il dono dell’uno all’altro ed è ed è pensabile solo in questa relazione. L’essenza delle persona è il dono di sé, la definizione nel rapporto con l’altro. La persona non è nel fenomeno della coscienza, è la radice che differenzia una coscienza dall’altra, nonostante la comune natura razionale, e non coincide con l’individualità percepita empiricamente, che è percezione del dato, non suo governo, anche se ovviamente la persona è realizzata con l’esistenza concreta dell’essere umano, dal momento del suo prima inizio1

Non so se tutti i cristiani accetterebbero questa descrizione della loro antropologia, ma è chiaro che la tradizione cristiana riconosce l’imago Dei nell’essere umano dall’istante del suo concepimento e lo riconosce come coincidente col diritto nella sua concretezza: il diritto di natura per Rosmini è la persona umana sussistente. Ossia è il singolo essere umano nell’atto della sua esistenza. Che è l’esistenza d’una natura razionale, ossia d’un individuo responsabile che riconosce quello che è, non lo crea. Il diritto dell’essere umano trova il fondamento nella sua capacità di agire secondo coscienza. 

Mi si può obiettare che questo è quello che dicono tutti, specialmente i radicali. Ma non è così, perché la coscienza non coincide con la percezione della mia irriducibilità empirica e della volontà come volontà d’arbitrio. Agire in coscienza non vuol dire agire arbitrariamente, perché le mie azioni debbono rispettare la mia identità relazionale e la mia identità naturale, l’omicidio è il delitto maggiore perché nega la relazione tra gli esseri umani, l’aborto ne è una forma, perché nega la 

1 Maritain in Approches sans entraves, Idea tomista dell’evoluzione, par. 6, sostiene che l’infusone dell’anima spirituale richiede che sia pronta la materia capace della forma spirituale, quindi lo sviluppo del cervello nel concepito. Non ne trae la conclusione della liceità dell’aborto, perché si tratta di vita umana, ma a me sembra una posizione comunque debole, in quanto la realtà in atto dell’ente e la sua natura sono date al concepimento e non si vede perché se ne debba escludere l’attualità spirituale della sostanza, descritta dall’uso della parola anima. 

relazione madre figlio, sussistente sia che il figlio sia auspicato, sia che non lo sia. Nella visione radicale l’individualità è di tipo matematico, ossia si definisce per sé e in sé. I numeri nascono perché noi ci poniamo di fronte a un insieme di unità pensabili indipendentemente l’una dall’altra, per poi essere collegate con relazioni d’ordine in coppie, terne e così via. Gli individui riconosciuti empiricamente stanno per sé, ad essi s’aggiungono relazioni che, essendo capaci di decisione, possono anche essere rifiutate, non sono vincolanti perché non entrano nella sua definizione. Invece nell’intuizione cristiana la determinazione della relazione, il dono di sé, è la forma che assume la persona e il senso della sua vita. L’essere genitori è il dono di sé ai figli, è la vocazione che trova risposta nella decisione che consente, definitivamente. 

La prospettiva cristiana implica che io sia dono. La prospettiva radicale che io sia la percezione di me. La prospettiva cristiana implica che io sia atto d’esistenza, ente in actu exercito, quella radicale che io sia il soggetto di atti arbitrari. Nella prima sono soggetto di diritto in quanto sono soggetto di dovere, non nel senso che il diritto altrui limita il mio, ma in quello che la logica della situazione coinvolta dalla decisione originaria costituisce un impegno cogente: siete marito e moglie in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia. O che la logica della situazione di fatto costituisce una vocazione cogente per quello che sono come dono: se vedo una persona che annega e so nuotare, debbo mettere la mia vita a repentaglio per salvarla. Al centro non è il diritto alla ricerca della felicità, a inseguire il piacere o qualsiasi cosa possa ritenere darmi la felicità, ma la vocazione a esistere come dono, perché l’identità ultima non è nelle mie qualità e attitudini, ma nella mia relazionalità. 

Le conseguenze della vittoria dell’antropologia radicale 

Originariamente le nostre carte dei diritti sono state scritte per una società cristiana, la riduzione antropologica che s’afferma nel sessantotto le snatura. Essa inoltre colpisce anche l’altra branca dell’antropologia sessantottina, ossia quella che risolve la coscienza nella risultante dialettica di forze oggettive e assume gli impegni dello storicismo socialista. I nuovi underdog non sono gli operai che debbono prendere il potere, la liberazione della classe e attraverso la classe, ma donne e giovani, minoranze etniche, omosessuali e handicappati. Se ne rivendica la dignità umana e quindi la parità nei diritti, ma essi non sono classi, bensì categorie, somme di individui aggregati nella rivendicazione della parità delle opportunità. Il passaggio dalla classe alla categoria toglie le relazioni unificanti, la dialettica della composizione organica del corpo sociale, per sostituirla con una società dell’aggregazione delle unità e della giustapposizione delle parti, in un sostanziale apartheid nel quale le famiglie umane condividono il territorio senza dialogare tra loro, come è nella mal sognata comunità multiculturale dei nostri giorni, completa negazione della realtà relazionale e quindi dialogica della persona, che dialoga non per accettare il diverso nella sua diversità, ma per lottare con lui alla ricerca della verità comune. 

L’effetto combinato della percezione di sé nella dialettica sociale e di quella di sé come autopercezione conduce a una drastica reinterpretazione dei diritti civili e di quelli sociali. Acquisto il diritto civile al mio desiderio e quello sociale a vederlo gratificato dalla collettività. Ma insieme chiedo alla società di trasformare questo mio sentire in sentire comune e cogente, di imporre una correttezza politica che omologa. Guai a chiamare negro il negro o cieco il cieco: le prole non sono neutre indicazioni di dati di fatto, ma etiche determinazioni di valore, e va rifiutata ogni differenza che configuri una differenza di valore tra gli esseri umani. Il che comporta un uguale diritto al successo: anche se sono una schiappa ho diritto ad aspirare ad essere il centravanti della Nazionale. 

La tragedia educativa del sessantotto non nasce dalla contestazione della scuola classista. Ricordo il me stesso diciassettenne seduto nella platea del teatro comunale a sentire Gianni Pugliese criticare l’assetto classista della scuola, tale perché preparava, nei diversi ordini, la classe dirigente, quella dei tecnici e quella degli operai. Ne nacque l’indifferenza educativa dell’unicità della funzione docente e il disastro assai democristiano dei decreti delegati del 1974, quando il problema invece d’essere affrontato, fu annegato nelle sabbie mobili delle formule populiste.

Non nasce neanche dal rifiuto della vecchia Italia, dei suoi musei e del suo umanesimo latinista e cattolico in favore della modernità ingegneristica che produce il Moplen, con il conseguente abbandono della narrazione del passato e della sua capacità di produrre identità per il futuro. Sono state due cose molto negative, ma rimediabili. La vera tragedia educativa è nella riduzione della persona all’unità empirica e alla coscienza empirica, nella incapacità che questa produce di dialogare nella ricerca della verità, non come scambio di opinioni, ma proposta e messa a rischio della propria identità, personale o culturale, nella cecità verso il dato di base per il quale tanto la vita quanto io stesso siamo dono. È la forma che ha assunto, assorbendo l’idea radicale, la coscienza comune, alla quale la mia generazione s’è abbandonata senza riflettere e ch’essa ha passato ai suoi figli, che hanno diritto di chiedere perché abbiamo chiamato libertà la caduta delle barriere sociali, culturali e psicologiche che reprimono l’individuo, ma non abbiamo saputo proporre, dire e realizzare quale sia il contenuto positivo, la forma che l’essere umano deve assumere perché la sua identità personale non sia negata. 

Conclusione 

Per chiudere andando giù duro, dirò che la tragedia del sessantotto è la sua apostasia, la secolarizzazione radicale. Le ideologie s’erano proposte come religioni laiche, idolatrie che sostituivano la religione cristiana e promettevano non l’al di là ma il futuro. Il sessantotto s’è ancora mosso tra di esse, ma nella sostanza ne ha vissuto la morte, producendo l’atomismo psicologico, sociale e spirituale al quale siamo ridotti quando non abbiamo più un Dio da servire o almeno il riconoscimento in noi della sua istanza di verità e sostituiamo la dinamica reale della vita personale, familiare, sociale con astrazioni, la prima delle quali è l’individuo atomo sociale.