Articolo pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Guido Formigoni

Walter Veltroni negli ultimi anni ha pubblicato sul «Corriere della Sera» molte interviste a personalità politiche del Dopoguerra, spesso centrate attorno alla memoria del caso Moro. Ora ci torna con un libro, in cui ripresenta alcune delle stesse interviste con un’ampia introduzione, una sorta di saggio critico. Il parterre dei testimoni è apparentemente abbastanza bilanciato (tre democristiani: Rognoni, Pisanu e Segni; due comunisti: Tortorella e Occhetto; tre socialisti: Formica, Signorile e Martelli; una radicale: Bonino). Peraltro, le interviste, tutte interessanti, non sono identicamente legate al caso Moro (ad esempio lo toccano solo tangenzialmente Occhetto, Segni e Bonino). Prima di queste, l’autore ripresenta un più antico colloquio, condotto addirittura nel 1993, con Prospero Gallinari in carcere.

L’autore ricama quindi testimonianze e memorie, per presentarci alcune sue riflessioni sull’eredità della tragedia del 1978 nella storia del Paese. Merita discuterle per più ragioni, soggettive e oggettive. Le prime considerano la loro rilevanza nelle forme del dibattito pubblico. Veltroni è stato politico di primissimo piano, ma è ormai diventato anche una personalità mediatica a tutto tondo, con un importante ruolo creativo, giornalistico ed editoriale. Sono certo che le sue visioni lascino traccia. L’interesse oggettivo mi pare legato soprattutto ai meccanismi della memoria e a come questi condizionino, orientati in un modo o nell’altro, la coscienza collettiva. Il testo si muove, infatti, nel cuore di un nesso tra ricordi personali e memoria stratificata di un evento.

Il libro insiste sull’identificazione del caso Moro come spartiacque decisivo della storia della Repubblica. Il sequestro fu motivato dalla politica del leader Dc: «L’obiettivo del rapimento del 16 marzo era la funzione di cerniera che Moro aveva assunto in quel passaggio delicatissimo della storia nazionale» (pp. 23-24). Raccontando le origini degli orientamenti di Moro e Berlinguer per un’intesa, egli chiarisce anche che i due progetti non coincidevano negli sviluppi previsti dopo una fase di collaborazione. Veltroni sottolinea poi, efficacemente, la difficoltà della situazione creatasi dopo il 1976, con i contraccolpi subiti rispettivamente dai due protagonisti all’interno del proprio mondo. Il Pci dopo la grande avanzata doveva sostenere un monocolore Andreotti, la Dc che si era salvata dal declino elettorale doveva accettare di non poter governare senza l’assenso del grande avversario storico: questo snodo delicato portò a un clima di reazione da una parte e dall’altra.

In questo contesto delicato, il gorgo che si apre con via Fani. In primo luogo, riflettendo su quel passaggio si evidenzia il fallimento delle Br che «volevano il comunismo e hanno prodotto il pentapartito» (p. 34). Poi, la constatazione dei misteri irrisolti: «È tutto strano, è tutto sporco nella vicenda Moro» (due volte a p. 23). Quindi emergono i risvolti internazionali: «I veri trionfatori della vicenda Moro, va detto, sono stati i conservatori. I conservatori della Guerra fredda» (p. 35). Infine, la questione della fermezza: «Il Pci era onestamente convinto che le istituzioni non dovessero cedere al ricatto delle Brigate Rosse» (p. 48), nonostante il «disastro» della divisione con il Psi. Il concetto di chiusura: dopo la fine di Moro, la «Prima Repubblica» era finita, ma la Seconda nei fatti non è mai nata.

Queste riflessioni si inseriscono in un dibattito pluridecennale, che ha riempito ormai biblioteche intere, su tutti i risvolti della vicenda. Ma se si leggono congiuntamente alle sottolineature che emergono nelle interviste, portano acqua ad alcune concezioni diffuse di quel passaggio – sul piano della memoria collettiva – che non paiono affatto neutre. E che val la pena provare a misurare, anche alla luce delle acquisizioni della ricerca storica, che si basa sui documenti, aggiungendoli alla memoria o utilizzandoli per correggerla.

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