La rivoluzione avvenuta in Libia nell’ottobre 2011, caratterizzata dalla atroce esecuzione di Muammar al Gheddafi, è stata la tragica conseguenza di 42 anni di dispotismo e della penuria di una qualsiasi forma di organizzazione politico-sociale nel paese nordafricano.
Si parlò delle due facce di Gheddafi, il dittatore : un uomo potente e sanguinario che nel suo stato, solo a pronunciarne il nome, suscitava brividi e terrore. Ma anche il Gheddafi anti-imperialista, difensore della causa araba e del paventato quanto astratto teorema del “socialismo islamico” di ispirazione nasseriana. Sulla sua vicenda e sulla sua modalità di esercitare il potere si può dire tutto, ma non si può certamente negare che la Nato, bombardando Tripoli con lo scopo di deporre il tiranno, ha travalicato il suo mandato internazionale avocando a sé la scelta del cambio di governo mediante una missione telecomandata da Stati Uniti e Francia.
Facciamo un po’ di ordine. La Libia è da molti decenni al centro dell’attenzione globale per le sue poche ma importantissime risorse. La Cina ha la sua fame di petrolio, gli Usa hanno i loro investimenti e gli inglesi i loro accordi ante e post-Gheddafi. La Francia, da parte sua, oltre alla storica attrazione per il controllo di quella fetta di Mediterraneo, aveva e ha concentrato in loco la sua attenzione investendo molto sul nucleare civile che le energie e i carburanti libici sono in grado di garantirle. E l’Italia? Fermo restando il suo secolare interesse per l’area nord-africana, certamente, se avesse potuto, avrebbe evitato il conflitto. Non è riuscita a farlo non tanto per lo scarso peso diplomatico del passato governo-Berlusconi e per gli accordi commerciali che il leader di Forza Italia aveva stipulato col dittatore, quanto per altre ovvie ragioni. Il suo, infatti, fu un ruolo assolutamente secondario in tutta la vicenda soprattutto perché non ebbe i mezzi politici per arrestare quel processo.
Tuttavia, sebbene l’Europa avesse congelato i beni di Gheddafi, Francia e Usa continuavano al contempo a “ballare” con Gheddafi stesso. Salvo prendere la decisione, molto opportunista, di cacciarlo e fare in modo che venisse cacciato. La rivoluzione libica, iniziata il 17 febbraio 2011 e durata circa 8 mesi, ha provocato 50.000 caduti, 200.000 feriti e altrettanti tra sfollati e rifugiati di guerra. Si è spesso detto che l’operazione – comprensiva dei finanziamenti a favore delle forze rivoluzionarie e dei gruppi tribali che stavano dando la caccia alla famiglia Gheddafi – è stata intrapresa con la regia di Sarkozy, il quale, solo poche settimane prima, si era prostrato innanzi alla strabiliante bellezza dei cavalli arabi sfoggiati dall’ex dittatore. Che la Francia abbia avuto un ruolo decisivo circa i mutamenti della regione libica non lo scopriamo certo oggi. Ad ogni modo, i problemi non sono derivati solo dal numero delle vittime dei bombardamenti, ma anche dal consequenziale esodo biblico di rifugiati e poveracci verso il Sud dell’Europa. Condizione che quel conflitto, conclusosi nell’ottobre del 2011 con la liberazione del paese nordafricano, ha determinato. Un esodo che ancora oggi, a metà del 2018, sembra non arrestarsi. E allora perché il liberale Macron non si assume la sua parte di responsabilità in quanto garante della politica del suo paese e comunque erede di una secolare tradizione colonialista ? Perché il suo entourage definisce “vomitevole” il comportamento delle autorità italiane sulla questione Acquarius ben sapendo che altrettanto vomitevole è stata la decisione di fare la guerra alla Libia per mere ragioni di interessi commerciali (salvo rifiutare, col senno di poi, di accogliere in Francia quei poveracci che – loro si – sono fuggiti per motivi umanitari)?
La nuova classe dirigente transalpina, in continuità con un processo (non estraneo neanche a personaggi del calibro di De Gaulle) teso a svincolare la Francia da legami troppo stretti con Washington, Gran Bretagna e Italia, non ha ancora smesso di esprimere la sua vocazione nazionalista tramite politiche che – non dimentichiamolo – sino a pochi anni fa intendevano resistere alla spinta indipendentista di popolazioni soggette all’annoso colonialismo di Parigi. Suddetto nazionalismo, degenerato con le politiche lepeniste ma del quale rimane comunque traccia nei movimenti liberal-democratici coautori della chiusura delle frontiere franco-italiane, non smette a tutt’oggi di contestare l’egemonia del dollaro nell’economia occidentale. Iniziativa sotto molti aspetti velleitaria poiché, nonostante susciti adesioni sia a destra che a sinistra, non è sostenuta da adeguati fondi e incompatibile con l’ideale di un’Europa egemonizzata dal duopolio franco-tedesco.17