È scomparso nei giorni scorsi Luca De Mata, intellettuale versatile e concreto, già direttore di “Fides”, amministratore delegato in carica della Fondazione Besso di Roma.

Pensiamo che la forza di volontà e l’amore per la vita abbiano una carta segreta da giocare contro la morte. È la nostra irriducibile speranza. Ecco però che di colpo veniamo investiti dall’impotenza dei medici e dei loro assistenti: purtroppo non ce l’ha fatta!

Penso che Luca avrebbe avuto ritegno a dichiararsi sconfitto. L’ho sempre conosciuto combattivo, sempre deciso e diretto nel prendere di petto la realtà. Uomo tenace, ma sensibile, amava profilare la vita secondo geometrie morali che non accettava facilmente di addolcire. 

Nessuno avrebbe assegnato al suo carattere l’aggettivo di “romano”, dato che di Roma ci sovviene istintivamente quella certa “scioltezza e lautezza del vivere e del fungere” immortalata da Carlo Emilio Gadda. Eppure, malgrado l’indolenza e il fatalismo della Città Eterna, risulta che Andreotti non a caso parlasse di “durezza romana”. 

Luca, appunto, maneggiava una sua (romana) durezza interiore che appariva agli amici un esempio vivente di testardaggine, al più una manifestazione intricata di generosità e spirito protettivo. 

Da giornalista avrebbe dovuto inchinarsi alla nobile distinzione tra fatti e opinioni; invece, a riprova di un  desiderio di verità, ogni suo esercizio attorno all’opinione mirava, dietro la rappresentazione dei fatti, a indovinare i segni e le forme di un  probabile antefatto.

Confesso che le passeggiate per strade e vicoli del centro, quasi sempre nel perimetro attorno casa, mi ritornano alla mente come sfondo di sbilanciatissime conversazioni: non era facile arginare l’inquietudine che animava la sua ricerca di senso attorno alle piccole e grandi cose della vita.

Era così con gli amici. Altro invece il suo comportamento quando di fronte gli si paravano interlocutori – e ne aveva molti – per così dire “impegnativi”. Una volta, ospite il Card. Tonini a casa sua, passò la serata a cambiare i piatti e servire le pietanze, un po’ freneticamente, senza interloquire veramente; come se a noi pochi lì riuniti – la moglie Orsa e la piccola Caterina, oltre a me – fosse raccomandato, attraverso il suo riserbo, di ascoltare attentamente “Sua Eminenza”.

Chiedersi della sua fede, quando pure in Vaticano ebbe frequentazioni e ruoli di prim’ordine, arrivando a dirigere “Fides”, l’agenzia  di stampa di Propaganda Fide, è sfiorare il punto più delicato della sua esistenza terrena. Un certo ribellismo interiore faceva la differenza. Ecco, il silenzio di Dio poteva pure rientrare nella sfera della sensibilità di Orsa, amata compagna di vita, cui ha dedicato tutto se stesso fin dentro l’estremo saluto, solo qualche mese fa, secondo il rito ebraico; ma quel silenzio, a mio giudizio, era l’assurdo che non riusciva ad accogliere. 

Un assurdo che penetrava ostile e incomprensibile nel suo vissuto quotidiano di marito debole e disarmato, a corto di speranza, in una condizione che rivela sempre come solo la fede possa compiere il miracolo di gettare luce oltre il buio della sofferenza e la tristezza dell’abbandono.

Luca De Mata, anche per l’ultimo incarico alla guida della Fondazione Besso, merita di essere riconosciuto in tutta la sua creatività di  uomo colto e operoso, schivo di onori ma ricco di scrupolo del dovere. Ci ha lasciato in questo tempo di quarantena, la sua tempra  esposta a una malattia crudele, sicché anche noi sperimentiamo nel commento che si fa commozione per un distacco precipitoso questo vuoto impensabile che Dio circonda misteriosamente di silenzio. Ora giova piuttosto credere che in Paradiso non ci sia silenzio, ma tanta musica: quella che piaceva a Luca.