Per quanti, soprattutto giovani, hanno avuto la fortuna di conoscerlo, Franco Marini può considerarsi una delle ultime figure eminenti di una politica che non c’è più. Altri sono autorizzati a illustrare una lunga e qualificata esperienza – appunto, la sua – ma di Marini rifulge nell’immediato ciò che ha inciso di più sulla crescita di una generazione senza dogmi, ma anche senza certezze. Posso dire che ho condiviso la “fame” di politica di questa generazione. Oggi non cambia il bisogno avvertito nei primi momenti del nostro impegno pubblico. Qui scatta l’ammirazione che circonda i protagonisti del complicato passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Ogni “giovinotto” ha necessità, per dare al suo pensiero una forma, di accostarsi alla testimonianza dei migliori interpreti della vita democratica nazionale.
Ricordo che mossi i miei primi passi nella Margherita e, ancora a distanza di anni, ci si batteva contro le scorie degli scandali. Capii che Marini era Marini quando, iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’affare “Affittopoli” per un appartamento a Parioli (zona elegante di Roma), invitò i giornalisti a visitare l’immobile, per poi chiedere loro: “Un milione di euro per un piano rialzato e uno scantinato. Vi sembrano pochi? Sono indignato, anzi no, sono proprio incazzato”. Rimasi impressionato per la fierezza di questa reazione. Al facile moralismo, dilagante nel paese, opponeva la serietà della propria condotta: non amava nascondersi e neppure subire passivamente.
Tuttavia, rientra nella comune descrizione del personaggio la capacità di muoversi senza fare clamore. A Marini si attribuiva una freddezza superiore. Carlo Donat-Cattin, suo riconosciuto maestro, arrivò a definirlo: “uno che uccide con il silenziatore”. Intendeva sottolineare, a buon conto, la capacità di assumere decisioni severe che andavano a neutralizzare le furbizie o le arroganze di qualche interlocutore spregiudicato. Invece, con altro segno, lo “stile mariniano” si è sempre caratterizzato per la discrezione dell’agire politico, quando le circostanze, come spesso avviene, ne imponevano l’esercizio. D’Alema gli è debitore per il sostegno offerto nel 1998, con un qualche distacco dall’effervescenza mediatica, alla sua investitura a capo del governo.
Si dice anche che fosse impavido. Prendeva di petto le situazioni e contrastava, se necessario, le storture della lotta politica. Si fece valere da Presidente del Senato, a modo suo, con la premura di preservare l’onorabilità delle istituzioni. Mentre Domenico Gramazio agitava in Aula lo champagne per festeggiare un voto che determinava la caduta del governo Prodi, fece risuonare la sua immediata censura “Mettete via quella bottiglia, non stiamo mica all’osteria”. Parole addirittura gridate, perché lo sdegno travalicava la compostezza protocollare.
Il senso delle istituzioni lo si trova, in effetti, nel cuore di un’Italia genuina e popolare. Spesso ce ne dimentichiamo per effetto di un sovraccarico di spettacolarità mediatica. E Marini, non per vezzo o demagogia, prediligeva evocare il legame con questa Italia. Veniva dal popolo e se ne faceva vanto. E così spiegava la sua collocazione di campo: “Io il mare l’ho visto per la prima volta durante una gita dell’Azione cattolica a Silvi Marina. Sono stato a Roma per la prima volta nel 1950, con un viaggio organizzato dai “baschi verdi” cattolici. Il primo calcio a un pallone di cuoio l’ho dato nell’oratorio. I primi corteggiamenti li ho fatti nella mia parrocchia. Come potevo non essere democristiano?”.
Questa rivendicazione di identità fu una costante del suo impegno di sindacalista, quanto mai geloso del patrimonio culturale della Cisl. Lo aveva acquisito partecipando alla scuola di formazione che Mario Romani aveva fondato a Firenze, per dare corpo e sostanza a un soggetto sindacale moderno, capace nelle fabbriche e negli uffici di reggere il confronto con i “rossi” della Cgil. Marini tenne quindi testa alla pretesa di fare l’unità sindacale, sull’onda dell’autunno caldo del 1969, a misura di una sostanziale egemonia di sinistra. Ciò non gli impedì, successivamente, di proporsi come Segretario generale di una Cisl a vocazione unitaria, disposta a rimodellare senza pregiudizi la collaborazione con le altre sigle sindacali. Guarda caso, in politica portò esattamente questa inclinazione al dialogo, ma sempre da posizioni rispettose delle diverse sensibilità.
Marini ha rappresentato per me – ricordo il suo discorso in occasione dell’ultimo congresso nazionale della Margherita, a cui presi parte nel marzo 2007 – un punto di ancoraggio per garantire un responsabile superamento delle storiche appartenenze di origine e per avviare così la costruzione di un nuovo partito di stampo riformista. Nell’affermazione “da domani ci chiameremo tutti democratici” echeggiava, in realtà, la consapevolezza di quanto fosse faticoso e tuttavia inevitabile il percorso del nostro rinnovamento. Un discorso, questo, che ancora chiama in causa l’ubi consistam del Partito democratico.
Il nome di Marini, infine, è associato a un mio momento di delusione. Nel 2013 si consumò l’esordio tumultuoso di Renzi sulla scena pubblica nazionale. Fu lui, infatti, che sulle colonne di Repubblica “picconò” la candidatura al Quirinale di Marini, essendo questi cattolico ed essendo necessario eleggere invece “il Presidente di tutti, non solo il Presidente dei cattolici”. Avremmo potuto avere, a dispetto delle scorribande renziane, per la prima volta un sindacalista al vertice della Repubblica. Marini comunque mise a tacere sul nascere ogni polemica dichiarando con serenità, seppur sofferta, che venendo da tante battaglie “quando se ne fa una o si vince o si perde, non crolla il mondo“.
Marini lascia un vuoto difficilmente colmabile nel campo della politica odierna. Indiscusso personaggio di un’altra epoca, ha lasciato in eredità, a persone come me, la gioia di vedere quanto sia ancora oggi essenziale difendere i valori e le istanze di giustizia sociale. E consentitemi di immaginarlo un’ultima volta, con scoppola e pipa, mentre si aggira per il paradiso dei buoni politici e si diverte a ripetere che “di strada, comunque, ne abbiamo fatta…”. Ora dunque spetta a noi. Dobbiamo fare un altro pezzo di strada per non dimenticarla, questa bella lezione di Franco Marini.