Articolo pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Stefano Gallo

Il 10 febbraio 1961 venne abrogata una legge del 1939 intitolata “Provvedimenti contro l’urbanesimo” di contrasto all’immigrazione urbana. Con questa norma il fascismo aveva costruito intorno alle città italiane tante barriere burocratiche contro gli immigrati, ovviamente italiani: chi voleva iscriversi all’anagrafe municipale venendo da fuori – dalle campagne o da altre città – doveva dimostrare di avere un lavoro;per avere un lavoro era necessario registrarsi all’ufficio di collocamento, ma l’iscrizione era riservata ai soli residenti. I vantaggi che rispetto alle campagne potevano dare i contesti urbani (lavoro, servizi, sussidi) dovevano rimanere esclusivamente nelle mani degli abitanti “storici”, di chi vantava un maggior tempo di permanenza e quindi una certificazione nei registri di popolazione: sotto Mussolini non esistevano ancora gli slogan “Roma ai romani” o “Verona ai veronesi”, ma il criterio della restrizione dei diritti ai soli residenti e delle porte chiuse verso gli estranei  italianissimi  era stato tradotto in una normativa molto stringente.

Che il fascismo abbia tentato di contenere gli spostamenti all’interno della Penisola è un aspetto noto e in fondo comprensibile, coerente con la retorica ruralista e di “strapaese” del Ventennio. Ovviamente non riuscì nell’intento: le migrazioni interne non solo non furono fermate, ma aumentarono nel corso degli anni Trenta, con un’intensificazione dei flussi dal Meridione al Centro Nord (su questo ha scritto lavori fondamentali la storica Anna Treves).

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