Correva il 1946 e l’Europa era in macerie. L’Italia ripartiva a seguito della devastazione di una guerra durata sei dolorosi anni (dall’occupazione dell’Albania del 1939 alla resa del 1945). Era giunto il momento del Referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente del 2 giugno, che rappresentavano le prime consultazioni libere (con il voto esteso alle donne) dopo vent’anni di regime autoritario fascista.
I contrasti politici – benché feroci – non impedirono ai partiti di mantenere quella solidarietà necessaria perché la neonata Repubblica affrontasse e superasse le prove più dure che al momento si trovava di fronte: il varo della Costituzione, i trattati e soprattutto la ricostruzione materiale ed economica del paese. Questo approccio fu determinante. I lavori dei costituenti durarono un anno e mezzo, sino al Natale del 1947; in seguito alle elezioni successive (le politiche della primavera ’48), i cittadini non solo scelsero chi avrebbe dovuto guidarli al governo, ma si espressero anche a favore di un nuovo sistema e di una nuova collocazione internazionale che permettessero di dare luogo a decisioni nette, pur dolorose, ma necessarie per il rilancio della nazione.
Gli importantissimi Ministri del Tesoro di allora del I, II, III, IV e V Gabinetto De Gasperi, svolsero un ruolo fondamentale che consistette nell’evitare ante litteram un intervento statale troppo invasivo (tipico del dirigismo dei regimi dispotici) e nel riportare il paese alla stabilità monetaria e al risanamento del bilancio; impostazione attuata secondo una corrente di pensiero liberal-moderata ispirata agli ideali finanziariamente ortodossi post-risorgimentali e pre-fascisti. Del resto, la legge 1271 del 30 ottobre 1948 (previsione delle entrate e delle spese del Ministero del Tesoro per l’esercizio finanziario 1948-49) attribuiva al dicastero presieduto da Giuseppe Pella pieni poteri in merito alle casse dello Stato. Fu una manovra che lasciò inevitabilmente il segno e non fu esente da ulteriori divisioni politico-sociali. Tentiamo di spiegarne il perché.
Il programma si incanalò prevalentemente su due binari ben distinti: l’inasprimento fiscale e la svalutazione della lira, elementi che avrebbero consentito l’aumento delle esportazioni e incoraggiato il rientro dei capitali in relazione al cambio valutario più conveniente. A ciò fu aggiunta la limitazione del credito in modo da restringere la circolazione della moneta e indurre imprenditori e grandi aziende a immettere nel mercato i proventi accumulati nel tempo.
L’operazione aggiustò da un lato e ruppe dall’altro, per cause di forza maggiore. La lira recuperò il suo potere d’acquisto, i capitali ricominciarono a circolare nel mercato, il ceto medio acquisì pian piano fiducia e i salariati trassero vantaggi dal ribasso dei prezzi. Molto bene, ma ci fu un però. Dall’altra parte, infatti, a fine 1948 i disoccupati raggiunsero la cifra di due milioni di unità provocando più disuguaglianza sociale e nuove tensioni, mentre i sindacati scesero ancora sul piede di guerra e molte fabbriche vennero occupate. E ancora, Togliatti fu ferito gravemente a Montecitorio da un invasato e nelle piazze ricomparvero armi e barricate. Con ciò, l’antica unità antifascista subiva il suo decisivo e immutabile obnubilamento.
Quali sono i rischi che corre l’economia italiana in questa primavera 2020, caratterizzata dalla drammaticità e dalla straordinarietà di questa emergenza sanitaria così inattesa (almeno da noi comuni cittadini) e tuttavia così violenta e aggressiva? Le analogie con 74 anni fa, purtroppo, saranno più o meno quelle che un po’ tutti temiamo e che andranno presumibilmente a manifestarsi: una forte recessione, l’impoverimento addizionale delle fasce più deboli del paese e nuove tensioni sociali.
Con la differenza che oggi in Europa circola la moneta unica e chiunque non sarà esente da ripercussioni negative; in secondo luogo, che non potremo usufruire di un nuovo Piano Marshall (allora fu utilizzato in gran parte per le derrate alimentari) poiché gli Stati Uniti, colpiti a loro volta duramente dall’epidemia, daranno pochissimo spazio a sovvenzioni e crediti ai paesi amici in grave difficoltà.
Ma soprattutto – ci sia permesso di dire – che in quanto a carisma e capacità di intermediazione, al contrario di quel passato, oggi non si intravedono leaders politici in grado di affrontare al meglio una crisi di sì tali dimensioni. Anche perché nonostante il dramma che tutti stiamo vivendo e nonostante lo choc per le migliaia di vittime del virus, ci sono personaggi che continuano a soffiare sul fuoco della strumentalizzazione e dell’utilitarismo a fini propagandistici. Fenomeni, questi ultimi, in una condizione al limite dell’insostenibile, degni di un paese del terzo mondo.