1977, gli ultimi discorsi di Aldo Moro. Per capire le ragioni, ovvero i limiti e le prospettive, della politica di solidarietà nazionale. 

Moro aveva visto nell’alleanza fra cattolici e socialisti la chiave principale per modernizzare la società italiana. Invece questa “strategicità” non la immagina nel caso della solidarietà nazionale. A Mantova e Benevento lo statista dc chiarisce il senso della collaborazione con i comunisti.

Enrico Farinone

Il 1977, l’ultimo anno vissuto per intero da Aldo Moro, fu quello che con maggior ragione può essere definito il più tragico dei cosiddetti “anni di piombo” italiani. Certo, l’apogeo si raggiunse l’anno successivo proprio con l’omicidio dello statista democristiano ma quello – come noto – fu anche l’inizio della fine, poi protrattasi per un decennio ancora, dell’orda terrorista. Ma non v’è dubbio che la sequela ininterrotta di attentati, diversi mortali, a magistrati, poliziotti, politici, giornalisti accompagnò col terrore l’evolversi della nuova stagione politica che Moro stava pazientemente preparando.

Per la prima volta la Dc non era nelle condizioni di poter costituire una maggioranza politica organica ma al tempo stesso – di questo Moro era assolutamente convinto e infatti lo dirà nei suoi interventi pubblici – essa non poteva deflettere dall’impegno assunto con gli elettori che così numerosi le avevano confermato la maggioranza relativa e pertanto doveva fare di tutto per assicurare un governo al paese. Tornare alle urne, come pure qualcuno aveva ipotizzato all’interno del partito, non sarebbe stato coerente con questo impegno. 

A questa situazione, alla necessità di coinvolgere il Pci in una “intesa programmatica” ancorché non in una alleanza politica, si era del resto giunti non certo per responsabilità della Dc bensì a causa del disimpegno degli alleati tradizionali, e del Psi in particolare: Moro lo dice con chiarezza a Mantova e lo ribadisce sette mesi dopo a Benevento quando ormai il percorso che condurrà al governo della solidarietà nazionale è quasi concluso.

La delusione per il comportamento dei socialisti è palpabile. Moro infatti aveva sempre visto nell’alleanza fra cattolici e socialisti la chiave principale per modernizzare la società italiana e rinvigorire la democrazia. Il famoso discorso al Congresso di Napoli nel 1962 aveva illustrato bene questa sua idea, che era forte in lui anche perché giudicava tragica la mancata alleanza nel primo dopoguerra, che aveva così lasciato aperta la porta al fascismo.

Questa “strategicità” dell’alleanza invece Moro non la immagina nel caso della solidarietà nazionale, vista come un passaggio politico necessario, indispensabile ma solo per rispondere al momento contingente, assai complicato e grave, da gestire con un Parlamento che per oltre i tre quarti era costituito da due soli partiti, la Dc e il Pci.  Era cioè una soluzione dovuta, ma d’emergenza. A Benevento Moro spiega di cosa si tratta ricorrendo a un termine inusuale: “indifferenza”. Come noto, egli era un inesauribile elaboratore di formule verbali costruite per spiegare e motivare ogni passaggio politico che per la sua complessità dovesse richiedere un qualche approfondimento. “Indifferenza – disse – non significa il disconoscersi e il detestarsi; significa l’incapacità, l’impossibilità di fare alleanze vere, di accordarci in termini politici impegnativi con qualsiasi forza politica”.  La novità era che in questa condizione così particolare, di sostegno verso il governo e al contempo di “indifferenza” fra le stesse forze politiche che pure appoggiavano l’esecutivo, stavolta, ed era la prima in assoluto, c’era pure il Partito Comunista, al pari delle altre forze politiche.

La solidarietà nazionale avrebbe aiutato a superare un momento complicato ma alla fine si sarebbe dovuti tornare a costruire coalizioni politiche. Sarebbe così stato raggiunto il tempo della democrazia compiuta, la “Terza Fase” della democrazia italiana. Terza in quanto succedeva alla Prima, quella del centrismo degasperiano caratterizzata dalla ricostruzione materiale dell’Italia e dall’adesione alla Nato e al progetto europeista, e alla Seconda, che aveva visto l’allargamento ai socialisti della maggioranza di governo e una intensa pur se non sempre soddisfacente stagione di riforme sociali culminate con lo Statuto dei Lavoratori.

Fu Norberto Bobbio a rilevare come questo modo di riflettere per “fasi” e non per “vie” fosse una prova della laicità del ragionamento moroteo, scevro da qualsiasi schematismo ideologico. Una riflessione ripresa successivamente da Roberto Ruffilli, che spiegò come per Moro lo sviluppo di un Paese si determinasse attraverso la partecipazione collettiva e la collaborazione da parte di tutti e non già in virtù di predeterminati sbocchi individuati ideologicamente.

Fedele alla propria ispirazione cristiana nell’agire politico egli poneva il bene comune innanzi a qualsiasi affermazione di una identità partigiana convinto peraltro che – come disse in conclusione del discorso di Benevento – la Dc era e sarebbe rimasta il volto della libertà nel nostro Paese.

Si segnala

E. Farinone, Aldo Moro, gli ultimi discorsi. Mantova e Benevento, 1977, Iacobelli Editrice, 2023.