Quel 29 luglio a Monza, nonostante fosse sera inoltrata, faceva un caldo afoso. Intorno alle 22 Gaetano Bresci si confuse tra la folla, e sgattaiolando riuscì ad ottenere la visuale giusta per attuare il suo piano omicida (un piano politico o più semplicemente dovuto a motivi di odio?). Giunto a pochi metri dal sovrano sparò tre colpi, forse quattro, come stabilirono i rilievi di polizia, di cui uno fatale. Umberto I, secondo re d’Italia, colpito a bruciapelo in pieno petto, si accasciò sul sedile della sua carrozza scoperta. Un proiettile gli aveva trapassato il cuore. Stava passando la sua villeggiatura in Brianza. Quello che altri soggetti avevano provato a fare almeno due volte al medesimo re, si consumò in un giorno di mezza estate nel giro di una manciata di secondi.

Per l’Italia, quel gesto estremo rappresentò l’epilogo di alcuni anni di grande tensione, durante i quali si erano alternati scandali (vedi la Banca Romana), instabilità, scontri di piazza (vedi i moti siciliani e quelli di Milano) e fratture ideologiche difficilmente sanabili. I dissidi tra le istituzioni del giovane Stato e buona parte dei suoi cittadini, soprattutto quelli socialmente più vulnerabili, che pure rappresentavano lo “zoccolo duro” della cosiddetta nuova società di massa del paese, si trascinavano sin dagli aumenti dei prezzi su alcuni beni di prima necessità come il pane e il riso, promulgati a metà del 1897. Condizione che aveva inasprito i rapporti e provocato dimostrazioni alle quali le forze dell’ordine avevano reagito in modo feroce, sparando talvolta sulla folla. Sentitosi colpito anche nell’orgoglio, il “quarto stato” – analogamente ai movimenti anarchici fuoriusciti per gran parte dalle sinistre socialiste – decise di non dimenticare.

Ancora oggi, sul regicidio di Umberto I serpeggia un alone di mistero, legato in sostanza ai mandanti occulti dell’assassinio e alla rete di potenziali complici resisi corresponsabili indiretti dello stesso. Certo è che la pista anarchica – benché i rapporti tra i gruppi di estremisti, i socialisti, una frangia cattolica delle opposizioni e (addirittura) il legittimismo borbonico si fossero fatti sempre più fitti – fu ritenuta sin dalle prime indagini la più attendibile. In precedenza, erano usciti fuori i nomi di Turati e addirittura quello di Maria Sofia, ex regina di Napoli, l’eroina di Gaeta, tanto agguerrita quanto ancora ansiosa di approfittare dei periodi di crisi del governo nazionale per sovvenzionare organizzazioni pronte a pianificare un golpe. Ancor più anomala risultò la libertà di movimento del pregiudicato Bresci, il quale, nonostante fosse già schedato e sorvegliato speciale dall’intelligence del Regno, ebbe il tempo di partire dagli Stati Uniti, soggiornare indisturbato in Italia per settimane, giungere a Monza e colpire infine il re. Già, perché la comunità italiana di Paterson, capitale americana della seta, brulicava di organizzazioni filo-anarchiche e di ricercati per sovversione sottrattisi alla giustizia mediante la fuga e l’espatrio nel New Jersey. Località d’oltreoceano dove si era costituita una folta rappresentanza di cellule politiche apertamente ostili ai Savoia e al governo. Governo di Crispi e Rudinì prima, di Pelloux e di Saracco dopo. Vi bazzicavano, fra gli altri, Errico Malatesta, Giovanni Passannante (che attentò a Umberto I nel ’78) e Pietro Acciarito (che attentò a Umberto I nel ’97).

Dopo un rapido processo in cui il regicida ammise le sue colpe senza coinvolgere i suoi compagni o citare i suoi contatti, le alte stanze governative mostrarono di voler chiudere molto in fretta quella drammatica vicenda. Probabilmente, l’atto conclusivo, culminato il 22 maggio 1901 con l’impiccagione di Bresci presso il carcere di Santo Stefano – episodio tutto da chiarire – fece comodo alla maggior parte della classe dirigente di allora, che poté sostenere di ritenere chiusa la traversia. Ferme restando le più disparate ipotesi e le decine di arresti senza prove che erano seguite all’attentato.