Riflessioni sul merito alla luce delle condizioni reali della scuola

Tema veramente complesso quello del merito…Da diversi anni non si fa che parlarne, come elemento imprescindibile per la valorizzazione della persona, nella scuola, nel mondo del lavoro, in tutte le attività che possono manifestare le “doti” di ciascuno. Il merito dovrebbe essere il criterio in base al quale si assegnano incarichi di lavoro pubblico e privato, si investono risorse per borse di studio, ricerche e altro, si votano i propri rappresentanti…Si tratta cioè, come cita lo Zingarelli, del “diritto alla lode, alla stima, alla ricompensa, dovuto alle qualità intrinseche della persona, o da essa conseguita con le opere” e anche, per estensione, “valore, pregio”.

Fin qui niente da eccepire, se il criterio fosse veramente rispettato e utilizzato in modo corretto, salvo il fatto che porta con sé anche il principio della competitività, non sempre positivo se spinto agli eccessi per poter primeggiare in un mondo difficile come il nostro attuale. Si sta parlando del mondo adulto, ma che cosa succede se trattiamo di “merito” nella scuola? Oggi abbiamo addirittura un ”Ministero dell’istruzione e del merito”, espressione seducente per promettere un cambio di rotta nel processo pedagogico didattico, teso a valorizzare le doti di ciascuno studente, invece che a confonderli tutti in una diffusa mediocrità. 

Si vuole cioè sottolineare il criterio della “meritorietà”, come dice qualcuno con un nuovo eufemismo, per far emergere le eccellenze e preparare i giovani ad una società e ad un mondo del lavoro sempre più esigenti, senza però che sia chiaro quali ne siano i valori fondanti, se non il successo individuale e il conseguente appagamento personale. E in questo emerge una prima contraddizione. Ciascuno studente ha forme di intelligenza diverse, talenti diversi, per qualità e quantità, ma non sempre di natura tale da soddisfare gli obiettivi di apprendimento fissati per le varie discipline dai programmi scolastici o dai criteri di valutazione dei singoli Collegi Docenti, quando non dai singoli insegnanti. In questi casi, in cui il “merito scolastico” non riesce ad emergere secondo i criteri ufficiali di cui sopra, quale è la sorte di questi ragazzi? Se la scuola è quella del “merito”, rimarrebbero fuori dalla competizione e per loro non ci sarebbe opportunità di sviluppare i talenti che possiedono.

La seconda contraddizione si fonda su un falso problema pedagogico, addirittura fuorviante, se si guarda alla realtà della scuola nel suo svolgersi quotidiano. Esso è fatto di conoscenze da apprendere e di competenze da sviluppare, ma anche e soprattutto di rapporti formativi, tra compagni e con i docenti, che servono a far crescere dal punto di vista umano, sociale e civile, a formare cioè una persona integrale, non solo una macchina per produrre. Questa sì è una realtà inclusiva, che promuove i talenti. È proprio nel rapporto formativo tra docente e studente, attraverso un’osservazione attenta ed empatica, che si possono individuare le caratteristiche peculiari di ciascun alunno, il tipo di intelligenza, le attitudini specifiche, e si riescono a mettere in atto le forme di didattica più adeguate ad ”educare”, cioè a tirar fuori, a sviluppare le potenzialità del singolo soggetto.

In questo processo anche la valutazione non può che essere formativa, deve portare l’allievo a rendersi conto dei suoi livelli di apprendimento, delle motivazioni di eventuali insuccessi e delle modalità per migliorare le sue prestazioni. Deve sviluppare la fiducia in se stesso e nelle proprie possibilità, di qualunque misura e qualità esse siano.  Non ci possono essere perciò giudizi di valore prestabiliti cui tendere, che potrebbero demotivare o fissare in un’immagine definita un risultato provvisorio. Eccellenza, mediocrità sono quindi categorie inadatte a definire un processo che si sviluppa a partire dalla scuola per l’infanzia, alla scuola superiore, fino all’università.

La contraddizione sta proprio in questo: far emergere le potenzialità di ciascuno, di qualunque tipo esse siano (vero obiettivo di una pedagogia attenta alla persona), non vuol dire ragionare in termini di “merito”, che invece fa riferimento ad una scala di valutazione degli apprendimenti e dei risultati stabilito a priori come soddisfacente. Considerare “meritorio” o meno un risultato induce cioè a pensare che questo possa dipendere solo dalle qualità e dall’impegno del soggetto, generando scoraggiamento in chi non riesce altrettanto bene. Il concetto di “merito” crea dunque una distinzione tra studenti, tra “chi ce la fa e chi no”, senza tener conto dei livelli di partenza, delle facilitazioni che un contesto famigliare benestante e istruito può fornire e di altri stimoli esterni. Invece la scuola è deputata a dare di più a chi ha di meno, rimuovendo per quanto possibile, a livello di processo didattico ed educativo, gli ostacoli che impediscono il dispiegarsi delle potenzialità di ciascuno. E’ un preciso dettato della Costituzione, di cui sembra non si tenga adeguatamente conto.

Sarebbe inoltre diseducante favorire un clima di emulazione e di rincorsa tra gli studenti, additando traguardi “meritori”, quando la nostra società avrebbe bisogno di rapporti solidali, collaborativi, sereni, senza dimenticare che i giovani sono fragili, spesso non sopportano il peso dei confronti e delle pressioni, soprattutto famigliari, a dare risultati sempre migliori. Sono sotto gli occhi di tutti i suicidi di studenti che non si sono sentiti in grado di affrontare gli obblighi scolastici ed evidentemente non hanno trovato nessuno in grado o disposto ad aiutarli.

Fortunatamente la scuola, nonostante tanti problemi di preparazione e di soddisfazione economica e professionale degli insegnanti, di strutture, attrezzature, di valorizzazione sociale, presenta molti casi di eccellenza, che assolvono in modo puntuale alle necessità educative dei loro studenti, con progetti di recupero e di sviluppo, di inclusione, di orientamento, di preparazione al lavoro. Il tutor o l’incaricato per l’orientamento non sono una novità, ma funzioni svolte da diversi anni a cura di docenti interni esperti e disponibili, con sacrificio proprio di tempo e di formazione, per precisa delibera di parecchi Collegi docenti. Chi ha vissuto la scuola, gestendo questi progetti e partecipando alle attività INVALSI di valutazione dei POF e poi degli istituti scolastici nelle varie versioni, può rendere testimonianza di persona circa queste realtà, che non sono poche, ma sono ignorate nel clima generale di denigrazione del servizio pubblico statale, per ignoranza, per ripetizione di luoghi comuni o, peggio, per interessi di parte. Ben venga quindi un riconoscimento economico di queste attività, ma non si pensi così di aver risolto tutti i problemi di scarso successo scolastico o di abbandono.

Quella del “merito” in ambito scolastico è dunque una propaganda fuorviante, che si intesta falsi obiettivi di miglioramento. Non si tiene in considerazione, invece, che parecchi istituti del Paese mancano di condizioni di sicurezza, attrezzature adeguate, spazi e fondi, senza i quali non solo è difficile svolgere una didattica inclusiva e contenere gli abbandoni, con un orientamento serio e con attività extracurricolari idonee ai diversi talenti e bisogni della persona degli studenti, ma anche sviluppare le tanto sbandierate eccellenze. Bisogna dire allora che il “merito” vero, in questi moltissimi casi di difficoltà, va agli insegnanti quando riescono ad essere, per i loro alunni, modello di coerenza, di impegno, di equità e di coscienza civile e sociale.

 

Angela Colombo, ex ispettrice tecnica presso l’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia.