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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Verso un’architettura di sicurezza europea più solida e autonoma

L’Europa ha bisogno di un proprio sistema di difesa. Incombono sfide nuove nel mondo multicentrico. Ritornare alle origini della NATO per rafforzare il primato della politica sulla componente militare.

Intravedere nelle parole di Marco Tarquinio sulla Nato qualcosa di più di una pur utile provocazione, come ha fatto Rosy Bindi nell’intervista a La Stampa di ieri, pur mossa da preoccupazioni che non si possono non condividere sulla necessità di trovare alternative alla tragedia della guerra per risolvere i conflitti in corso, credo esponga al rischio di distoglierci dalle priorità di questa fase storica.

L’Unione Europea ha la necessità di consolidare un proprio sistema di difesa comune, se vuole esercitare un ruolo da protagonista in un mondo divenuto multicentrico. Ma questo obiettivo appare realizzabile all’interno dell’Alleanza atlantica, come un rafforzamento del pilastro europeo della Nato che consenta un riequilibrio fra Stati Uniti e Ue, guardando al futuro più che al passato. Acquisendo nel contempo la consapevolezza che in un mondo multilaterale i diversi “centri” sono comunque in competizione fra loro, anche se in misura diversa, addirittura (ma non è certo il caso di Usa e Ue) con alleanze pragmatiche di scopo e a tempo, come già avviene nei Brics, dove, ad esempio, situazioni di quasi guerra in tratti di frontiera incerta non impediscono a Cina e India di cooperare insieme nel gioco globale.

Questo comporta che l’Ue, una volta conclusa la guerra ucraina, si mostri capace di definire in modo autonomo le proprie proposte su una nuova architettura di sicurezza in Europa, per non subire una pax russo-americana che la relegherebbe al ruolo di comparsa.

La sfida per l’Ue di saper affermare il proprio unico punto di vista implica da un lato l’onere di costruire una propria capacità di deterrenza, non presa più a prestito dagli Usa, nei confronti della postura neo-imperiale della Russia, senza peraltro disconoscere i punti, che pure esistono, di reciproco interesse fra Bruxelles e Mosca. Dall’altro lato implica anche una qualche forma di amichevole controbilanciamento alla tradizionale visione geopolitica, più anglo che americana, che tende a guardare all’Europa continentale principalmente in funzione delll’indebolimento, della Russia. Nel mondo attuale, in cui America Latina, Asia indopacifica e Africa stanno crescendo a ritmi mai visti prima, il pur sconfinato territorio della Federazione Russa ha perso molto del carattere  strategico che poteva avere all’inizio del Novecento agli occhi di un Mackinder. E sarebbe anche tutto da dimostrare che a trarre i maggiori benefici da una eventuale disgregazione della Federazione Russa in tanti piccoli stati, possa essere l’Occidente in declino demografico piuttosto che le potenze asiatiche.

Per queste ragioni credo che ci sia bisogno più che di una nuova Nato, di un ritorno alle motivazioni e allo spirito delle origini, ma anche solo di una conoscenza di cosa afferma il Trattato di Washington del 1949, come ha ben ricordato su queste colonne qualche giorno fa Enrico Borghi. Il Patto Atlantico sorse 75 anni fa come un’intesa regionale fra democrazie occidentali a supporto di un nuovo ordine globale che aveva, ed ha tutt’ora, il suo fondamento nella carta delle Nazioni Unite.

Nel corso della sua storia, soprattutto nel trentennio successivo alla fine della guerra fredda, la Nato talora ha subìto gli effetti deleteri della strategia di minoranze molto influenti le quali hanno, in vari passaggi cruciali, messo l’America, e di conseguenza la Nato, di fronte a fatti compiuti, portandole a fronteggiare situazioni nell’Est Europeo e in Medio Oriente che altrimenti si sarebbero potute affrontare con mezzi diversi dalla guerra e con esiti vincenti con il soft power invece di “regalare” l’Afghanistan alla Cina e al mondo musulmano e invece di “regalare” l’Iraq all’Iran sciita. 

Quando invece una strategia, giusta e lungimirante, la Nato nel dopo guerra fredda, l’aveva costruita, ed era quella dei partenariati a cerchi concentrici e a geometria variabile, con i Paesi dell’area transcaucasica e centrasiatica, con il Mediterraneo allargato, con i Paesi del Golfo. Progetti che sono stati rallentati, se non compromessi, dalla stagione del presunto scontro fra civiltà contro il terrorismo, poi dall’improvvida strategia delle “primavere” arabe, dagli eventi provocati in Libia e Siria, dal fenomeno  dalla genesi opaca dell’ “Isis” e nel contempo dall’azione sul fronte europeo orientale di forze e personalità che si sono preoccupate più di avvelenare i pozzi del dialogo che di pensare a un futuro in cui fare coesistere le diversità nelle zone di frontiera fra Est e Ovest.

Ma dobbiamo considerare tutto questo solo come incidenti di percorso, che non sono riusciti a scalfire la natura della Nato, che rimane quella – come affermano gli  articoli 1, 2 e il preambolo del Trattato di Washington – di una alleanza regionale per la sicurezza fra Stati democratici al servizio della pace e dell’attuazione degli obiettivi di cooperazione e di sviluppo sostenuti dall’Onu. Una Alleanza attrezzata a contribuire a costruire il nuovo multipolarismo di cui il mondo necessita, e perciò ancora attuale. La Nato, dunque, non va sciolta ma diretta bene nel realizzare i suoi obiettivi . E questo è compito degli Stati membri perché il cuore della Nato è il Consiglio del Nord Atlantico, che sancisce il primato e il controllo della componente politica su quella militare.