La notizia sottostante al clamore per il ritiro di Biden è che il partito in America non è riducibile a un semplice “registratore di cassa”, adibito alla conta dei voti nelle primarie per la scelta dei candidati, ma un luogo di organizzazione delle scelte politiche. È una struttura complessa, con un centro di direzione poco visibile e tuttavia pesante, almeno nei momenti cruciali.
Biden lancia la sua vice, Kamala Harris? Ebbene, una nota ufficiale dei Democrats precisa che l’investitura esige una procedura trasparente. Tradotto: i giochi sono aperti, non c’è nulla di scontato. Ciò significa, allora, che la Convention (Chicago, 19-22 agosto) è tutta da costruire. Senza un accordo tra i centristi (Obama, Hillary e Bill Clinton, gli stessi fedelissimi di Biden) e l’ala sinistra del partito (Sanders e Ocasio-Cortez), in un quadro che tenga conto degli equilibri territoriali e del ruolo delle cosiddette minoranze (etniche e culturali), è molto difficile identificare la soluzione giusta per il ticket progressista. Non è da escludere che alla fine Michelle Obama sia costretta ad accettare la nomination, magari affiancata da un governatore (ce n’è più di uno in grado di raccogliere consensi).
Ora comunque cambia tutto. Ancora l’altro ieri Donald Trump aveva fatto ricorso ai soliti insulti contro i suoi avversari, sicché “il suo appello all’unità nazionale”, ha scritto il New York Times, “è passato completamente in secondo piano”. L’ex presidente è tornato persino a rivendicare di aver vinto le elezioni del 2020, rilanciando l’accusa ai democratici di aver commesso frodi: “Questa è l’unica cosa in cui sono bravi”. E ha voluto andare anche oltre: “Continuano a dire: ‘È una minaccia per la democrazia’. Io dico: ‘Che diavolo ho fatto per la democrazia’? La settimana scorsa mi sono preso una pallottola per la democrazia”. Ora Trump, di fronte alla rinuncia di Biden, deve cambiare registro. Il punto critico è dato dalla sua piattaforma programmatica, un misto di retorica imperiale e logica isolazionista, senza un punto di equilibrio.
È facile, ad esempio, strattonare l’Europa, meno facile pretendere che si faccia strattonare, subendo la pretesa di un allineamento purchessia in nome dell’America first. Con quale prospettiva? Trump ne proclama l’insignificanza sul piano geo-strategico, salvo esigere che nel confronto USA-Cina non venga meno il legame euro-atlantico. Non regge. Quale che sia lo stato dell’Europa, non si capisce la ragione per la quale il primato americano possa contemplare nel futuro un’Europa supina, obbligata a vedersela da sola con la Russia, immaginando il progressivo disimpegno militare di Washington, e a rompere i rapporti commerciali con la Cina – ecco il residuo di solidarietà transatlantica – in ossequio alla dottrina sull’isolamento economico del Dragone, ad esclusivo vantaggio della reindustrializzazione degli Stati Uniti. Il disegno trumpiano ha in sé questa irrimediabile contraddizione.
A Chicago, nella Convention democratica, dovrà prendere forma un’alternativa a tutto tondo alla formula del “Make America Great Again”. Non solo nomi, ma anche e soprattutto programmi, contenuti, strategie, stabilendo se il mondo visto dall’altra parte dell’Oceano abbia ancora al centro l’alleanza tra America ed Europa. È ciò che conta per milioni di cittadini del Vecchio Continente.