La cinquantesima Settimana Sociale tenutasi nelle settimane scorse a Trieste ha rilanciato l’idea di un più deciso impegno dei cattolici in politica. Lo ha fatto con una certa solennità con interventi ai massimi livelli (Mattarella, papa Francesco, il cardinale Zuppi), ma senza una proposta concreta che è ancora da ricercare e da definire. Ma – questa è la domanda – c’è, oltre all’esigenza avvertita dai più, uno spazio per la partecipazione dei cattolici alla vita politica di questo Paese? Con un altro interrogativo subordinato al primo: per caso non siamo davanti ad un invito venuto fuori tempo massimo?
Le ultime elezioni per il Parlamento Europeo, nonostante la frammentazione delle forze politiche, hanno visto consolidarsi una polarizzazione destra-sinistra grazie anche alla sciagurata divisione delle due componenti di centro con l’effetto che nessun candidato di queste due compagini è approdato sugli scranni di Strasburgo e di Bruxelles. Ma, si dirà, i cattolici possono militare tanto nell’uno che nell’altro schieramento. Certo, è vero. Ma come? Possibile che i grandi temi agitati nelle giornate di Trieste siano rappresentati solo dalla buona volontà di qualcuno al di fuori di una organizzazione politica che non sia quella nella quale gli è stata concessa (interessatamente) ospitalità? È abbastanza evidente che senza una organizzazione politica che lo esprime, ci si deve chiedere cosa e chi può rappresentare un “cattolico” da solo. Quale cultura politica, quale storia oltre la partecipazione alla vita ecclesiale? Difficile credere che il Papa, i vescovi e la Chiesa abbiano bisogno di uno o più rappresentanti individuati singolarmente e al di fuori da ogni coerenza di pensiero politico organizzato, partecipato e condiviso laicamente al livello popolare.
E poi pur con tutta la scristianizzazione in atto nel vecchio continente e in Italia non meno che altrove, è altrettanto vero che resta percentualmente cospicuo il numero dei credenti praticanti, non pochi dei quali sanno cosa è stata la Democrazia Cristiana nella storia italiana e sanno distinguere tra appartenenza religiosa e scelta politica. Per questo parlare di “cattolici” in politica significa anche una questione di numeri e porta con sé il riconoscimento di una cultura politica che non si può esaurire nel magistero sociale della Chiesa e nelle direttive ecclesiali anche molto lodevoli di carità, accoglienza e assistenza. Attività che rimandano inevitabilmente ad una visione d’insieme della società e dei confronti e conflitti che in essa si consumano e che richiedono composizioni condivise come base di un corretto consenso. E questa è la politica pratica alla quale si deve aggiungere l’enorme ricchezza di un umanismo di origine cristiana a cui oggi, nell’empietà sopraffattoria e non armoniosa della nostra società, molti non credenti guardano con interesse e speranza.
Forse venti anni fa quella descritta sopra poteva essere una prospettiva praticabile. Oggi per come sono andate le cose, vi sono ad ostacolarla maggiori e gravi criticità: l’analfabetismo religioso, soprattutto tra i giovani, è cresciuto in modo esponenziale e ciò rende assai problematica la presentazione di una proposta politica cristianamente ispirata. E se pure si aprono varchi di attenzione, non c’è ancora segnato un percorso da seguire e che invece bisogna impostare da subito. E si ritorna così al punto di partenza e cioè all’incompiutezza sul piano della politica, dell’evento ecclesiale di Trieste. È facile dire che i cattolici debbono impegnarsi in politica. Molto più difficile è dire come. Una via potrebbe essere quella di un primo coordinamento di autoconvocati che dia inizio ad una ripresa di riflessione e di iniziativa, con la consapevolezza che si tratta di un processo molto lungo e dagli esiti non scontati anche se la storia (e qui la Settimana di Trieste è certamente un riferimento) con i suoi grandi rischi sembra davvero chiamarci.
Ultima chiamata? C’è ancora tempo? Si vedrà.