Se Israele bombarderà gli impianti petroliferi o i siti nei quali si sta sviluppando il nucleare iraniano sarà guerra aperta fra Gerusalemme e Teheran. Una guerra regionale con possibili, anzi probabili, conseguenze globali. Con il proprio attacco Israele confermerà la decisione che ormai è chiaro sia stata assunta dal suo governo, supportata da una larga maggioranza della popolazione: sconfiggere definitivamente (se poi questo avverbio sarà in futuro confermato dai fatti è tutto da vedere) i suoi nemici mortali, quelli che ne minacciano l’esistenza: ovvero l’Iran e i suoi agenti regionali operanti in Palestina, in Libano, in Siria, nello Yemen. Dunque non solo le “3 H” e le altre formazioni jihadiste ma anche il loro protettore e finanziatore.
Una logica di guerra, quella di Netanyahu e del suo governo, che va ben al di là della reazione al massacro del 7 ottobre perché è evidente la sproporzione, anche solo in termini di vite umane sacrificate, prevalentemente civili. Ma che è spiegabile con il convincimento da parte della comunità ebraica che senza una reazione forte, dura, violenta, implacabile la nazione e il popolo israeliano sarebbero a forte rischio di distruzione, come da manifesto intendimento dei suoi nemici.
Che non sono più – ecco la novità introdotta dal processo che ha condotto ai c.d. Accordi di Abramo – gli arabi in generale, come è stato per i decenni successivi alla costituzione dello Stato di Israele. L’asse del male ruota intorno all’Iran, che del mondo arabo sunnita è pericoloso avversario: religioso, politico, militare. Si spiega così la prudenza con la quale, sinora, le monarchie e gli emirati della regione hanno gestito i dodici mesi recenti. Denunciando l’eccessiva condotta israeliana a Gaza, la cui comunità musulmana è stata così violentemente decimata, ma al tempo stesso non interrompendo le relazioni con il potente vicino non più nemico come un tempo.
Anche perché Israele. e questo viene più o meno esplicitato da tutti, sta affrontando l’Iran sciita, reo di aver acutizzato con la rivoluzione khomeinista del 1979 una divisione feroce nell’islam datata secoli e ora incarnata da una teocrazia intenzionata a fare dell’Iran medesimo l’attore regionale dominante. Condizione palesemente inaccettabile per gli arabi tutti, da sempre sospettosi quando non apertamente ostili nei confronti dei tre stati non arabi del medio oriente: gli ottomani turchi, gli ebrei israeliani e, appunto, i persiani iraniani.
Ai governi arabi è risultato chiaro sin dal 7 ottobre che quell’azione intrapresa da Hamas e certamente nota a Teheran aveva l’obiettivo di sabotare il possibile e ormai probabile a quel tempo accordo di pace fra Israele e Arabia Saudita sulla scia di quelli già siglati con altri stati della regione. Un accordo che avrebbe avuto, fra i suoi punti essenziali, l’impegno bilaterale per la ripresa del negoziato sulla questione palestinese. Ora rinviato per chissà quanto tempo se non, forse, eliminato dai radar per sempre.
I governi arabi si sono trovati a dover gestire la naturale e comprensibile indignazione delle loro opinioni pubbliche innanzi alla catastrofe umanitaria di Gaza e anche all’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi dellaCisgiordania avendo però ben presente che il vero nemico, il vero ostacolo ai loro interessi – geopolitici ma anche religiosi – è l’Iran sciita, come ampiamente dimostrato, ad esempio, in Siria con il sostegno decisivo al tiranno Bashar al-Assad nella decimazione del suo popolo.
L’esultanza delle folle sunnite in diverse località libanesi e pure siriane alla notizia della morte del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è stata la vivida testimonianza dell’odio generato presso di esse dalle azioni compiute dalla milizia sciita, incistatasi nel paese dei cedri e dopo la guerra civile siriana pure nel regime di Damasco: sempre sotto l’egida iraniana.
E dunque è chiaro il perché della prudenza araba a fronte della violenza israeliana: se l’IDF riuscisse a smuovere le fondamenta del potere teocratico di Teheran una nuova pagina potrebbe aprirsi in tutto il Medio Oriente, e a Riad e nelle altre capitali arabe ciò non dispiacerebbe affatto.