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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Israele, cosa si muove al suo interno?

Oggi, a guerra in corso, il paese è relativamente unito intorno alle scelte del governo. Tuttavia le divisioni che al momento covano sotto la cenere sono destinate a rimanere tutte.

Dal 7 ottobre 2023 l’immagine che Israele ha offerto di sé è sostanzialmente questa: il consenso nei confronti del governo Netanyahu, fino a quel momento sottoposto a critiche e contestazioni di piazza crescenti, è aumentato progressivamente a mano a mano che la distruzione di Gaza proseguiva e soprattutto che i vari capi dei movimenti terroristici ostili venivano eliminati con azioni più o meno spettacolari ma comunque sempre efficaci. L’opposizione politica si è nettamente indebolita e i sondaggi elettorali lo certificano con assoluta certezza. Quella di piazza è invece ancora numerosa e attiva, ma concentrata sulla questione degli ostaggi e solo lateralmente su un effettivo scontro con l’Esecutivo. La comunità nazionale, insomma, è abbastanza unita intorno alla bandiera, ovvero alla propria esistenza in quanto Stato e gli episodi, gravi, di antisemitismo che si registrano qua e là in Europa e pure negli Stati Uniti non fanno che rafforzarne il sentimento di solidarietà e fratellanza. Così è in apparenza ma così è pure nella realtà.

Dietro questa immagine, però, c’è dell’altro. E lo si scopre scavando un po’ in profondità nella composizione della società israeliana. Sulla base di una domanda: ma gli ebrei si rendono conto dell’odio nei loro confronti che stanno generando presso tutti i palestinesi, bambini inclusi, e presso larghe masse di musulmani nel mondo? E anche presso la popolazione araba? Un capitale di ostilità totale che costringerà lo Stato della Stella di David a vivere in perenne assetto di guerra. La risposta non è scontata, né immediata. E certo non la si può dare da lontano, senza vivere ogni giorno dal di dentro la realtà sociale del Paese. Alcune indicazioni, però, vengono dalla sua composizione. Assai diversa da quella delle origini, quando lo Stato di Israele venne costituito. 

Il 14 maggio 1948 nasceva uno Stato laico impostato sui tradizionali cardini liberal-democratici di marca occidentale, in particolare europei, con tratti ispirati al socialismo (si pensi all’esperienza dei kibbutz) e sostanzialmente governato dalla maggioranza ebraica askenazita proveniente dal Vecchio Continente (tutti i primi ministri, Netanyahu incluso, hanno avuto questo imprinting culturale). 

L’evoluzione sociale della nazione ne ha però modificato in parte – e quella demografica la sta cambiando sensibilmente in questi anni – la composizione originaria poiché sono cresciute numericamente le altre due “famiglie” del Paese: quella più orientale, i mizhraim (sefarditi tradizionalisti e accesi nazionalisti) e quella più teocratica, gli haredin, i “timorati di Dio” ultraortodossi. Alle quali vanno aggiunti i cittadini “arabo-israeliani”, eredi di quegli arabi che dopo la guerra del 1947/48 rimasero entro i confini del nuovo Stato non abbandonando le proprie abitazioni come fecero invece molti di loro. Su una popolazione complessiva che non raggiunge i dieci milioni di individui questi ultimi in virtù di un indice riproduttivo vivace ne rappresentano ormai poco più di un quinto. Ma pur essendo a tutti gli effetti “cittadini israeliani” sono nei fatti tenuti ai margini un po’ da tutto e nel 2018 questa loro condizione di estraneità è stata sanzionata con la modifica della Legge Fondamentale (approvata a stretta maggioranza dal Parlamento di allora) indicante esplicitamente lo Stato di Israele come la “casa nazionale del popolo ebraico”, la cui lingua è quella ufficiale della nazione (relegando l’arabo ad uno status speciale, non dunque lingua ufficiale).

Un’accentuazione di uno status minoritario che non viene certo vissuta bene da una popolazione giovane, tesa ad acquisire un ruolo economico e sociale, e pure politico, che le viene negato nei fatti ma non disposta più ad accontentarsi – come fecero i loro genitori – dello status di cittadini. E che quindi è sempre più in contrasto con la nuova maggioranza della popolazione, non più quella askenazita degli inizi, oggi inferiore a un terzo del totale, composta da ortodossi mizhrain (quasi il 40%) e ultra-ortodossi haredim (circa il 12% ma in crescita esponenziale, ad una media di sei figli per donna!).

È questa nuova maggioranza radicale (seppure per il momento ancora differenziata: meno integralisti i primi e ultraintegralisti i secondi) che ormai detta le condizioni e guida la politica del premier, di fatto – anche a causa dei suoi problemi giudiziari – ostaggio della loro visione radicale del conflitto con i palestinesi e su scala più larga con gli iraniani.

Oggi, a guerra in corso, il paese è relativamente unito intorno alle scelte del governo: solo i parenti degli ostaggi e la sinistra manifestano una netta opposizione a Netanyahu, mentre il 40% ritiene addirittura necessario spingere ancora di più l’acceleratore del conflitto. Ma le divisioni che al momento covano sotto la cenere sono destinate a rimanere tutte, e non è affatto detto che lo faranno in modo pacifico: dopo il 7 ottobre la vendita di armi a semplici cittadini è aumentata notevolmente, così come è cresciuto il consumo di droghe e l’abuso di bevande alcoliche. Una miscela che non promette nulla di buono.