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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Trump e il nuovo ‘destino manifesto’: cosa resta dell’America unita?

Dialogo con Lucio Caracciolo, Marco Bardazzi e Paolo Mastrolilli: una crisi d’identità scuote gli Stati Uniti, tra solitudine diffusa, perdita del senso comunitario e ondate di violenza.

Al centro di una sterminata prateria svetta Columbia, la personificazione femminile degli Stati Uniti d’America. La donna in abito bianco e dai lunghi capelli biondi ha una stella sulla fronte, un libro scolastico in mano, il filo del telegrafo sotto il braccio. Sullo sfondo, verso oriente s’intravede una città portuale circondata da ponti e velieri. In primo piano, al centro, campeggiano invece i coloni americani che, sedotti e trascinati dalla donna imponente, trainano locomotive, guidano carovane, arano la terra. In breve, si spostano verso ovest. Dove i pellerossa fuggono o, nella migliore delle ipotesi, aprono la strada al «far west».

 

Il progresso secondo l’America

Era il 1872 quando il pittore prussiano John Gast decide di rappresentare così il progresso americano, da cui il titolo del quadro «American Progress», e di trasporre in modo allegorico il «destino manifesto», l’idea secondo cui gli Stati Uniti hanno l’eccezionale missione di espandersi, diffondendo libertà e democrazia. Oggi, a poche ore dalla cerimonia di inaugurazione della quarantasettesima presidenza statunitense guidata dal repubblicano Donald Trump, ci si domanda cosa resta del mito fondativo americano. E non per il presidente-eletto in sé o per gli inediti scenari internazionali, quanto per le tante anime di questo Paese emerse negli ultimi anni. Gli statunitensi sanno ancora andare, tutti, proprio come i coloni rappresentati da Gast, nella stessa direzione? E qual è la direzione? Cosa s’intende ora per «American progress»? La vittoria nella competizione tecnologica con la Cina, la corsa allo spazio, la tenuta del fronte interno? È ancora possibile mettere d’accordo un hillbilly dei monti Appalachi e imprenditore californiano, non tanto su economia e politica, ma su cosa dev’essere l’America?

 

Crisi d’identità

«Gli Stati Uniti si trovano davanti a una crisi di identità che ha tanto le sue radici quanto i suoi effetti nella società americana», esordisce Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica “Limes”, parlando ai media vaticani. «Se nella seconda metà del Novecento la classe lavoratrice e la piccola borghesia si consideravano elemento portante del sogno americano, oggi non è più così. Coloro che hanno sempre avuto centralità nella storia americana vivono una forte condizione di disagio sociale, sono spesso incapaci di dialogare e disinteressati ad abitare i classici spazi della vita comunitaria. Accusano notevoli differenze nei livelli di ricchezza con la classe ricca-dominante. Ritengono di essere stati dimenticati a favore delle minoranze, privilegiate dai fanatici del politicamente corretto e da élites tanto snob quanto arroganti, intente a occuparsi solo di giustizia climatica, diritti delle minoranze o pace nel mondo — senza avere molto successo —, dimenticandosi invece delle esigenze sociali. Ecco perché vedono in Donald Trump, ossia in colui che si propone come artefice del cambiamento, la soluzione. Con una particolarità, però. Se nel 2016 Trump aveva vinto principalmente grazie a lavoratori dal colletto bianco o blu, uomini, bianchi, disoccupati e operai, oggi a questi si sono aggiunti ispanici, neri, giovani laureati e donne dei sobborghi. Ciò significa che i trumpiani non sono solo i repubblicani».

 

Un’epidemia di solitudine

Secondo Marco Bardazzi, giornalista e scrittore esperto di Stati Uniti, questo allargamento dell’elettorato sta a significare che «gli americani hanno bocciato tanto l’establishment quanto le scelte dell’amministrazione Biden. Se ci si ferma ai meri dati economici, un cambiamento del genere appare ingiustificabile. L’immigrazione è ai dati più bassi dal 2020 e l’inflazione è stata contenuta. Ma questa non è la percezione degli americani. La maggior parte di loro crede di vivere peggio rispetto al passato, l’ormai decadente classe media vive una vera e propria epidemia di solitudine, che si traduce in un’esplosione di mortalità fuori controllo fatta di violenze, alcol, droga e suicidi. Un tempo, le comunità locali facevano da mediatrici fra il singolo e la collettività, mentre oggi fanno i conti con la scomparsa degli organi di informazione nei piccoli centri e con la profonda crisi delle Chiese protestanti. Il rischio è quindi pensare che le ultime elezioni americane siano state simili alle precedenti. Non è così. E, riprendendo le parole di Papa Francesco, credo che ci troviamo di fronte a “un cambiamento d’epoca”. Lo dimostrano i tanti inediti che non dobbiamo mai dimenticare: è la prima volta in cui un presidente torna alla Casa Bianca — ci fu un precedente, Grover Cleveland, rieletto nel 1893 ma in circostanze diverse —, è la prima volta in cui vince un condannato, in cui un candidato — peraltro un presidente in carica — si ritira, in cui uno dei due candidati viene aggredito con armi da fuoco».

 

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https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2025-01/usa-elezioni-presidente-trump-insediamento.html