Franco Marini era un abruzzese tosto, ostinato nelle sue idee. Orgoglioso di essere alpino. Lupo marsicano, lo chiamavano. Non amava i fronzoli e voleva sempre andare al sodo. Voleva capire gli interessi sottostanti alle questioni, non per niente veniva da una grande esperienza sindacale. Per lui la politica era lotta, non minuetto.
Quando morì lo ricordarono in modo convergente due personalità come Pierluigi Castagnetti e Arturo Parisi, che avevano idee parecchio diverse da Franco. Per Castagnetti “un uomo integro, forte e fedele ad un grande ideale, la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia”; per Parisi “era un lupo, fedele al branco e chiedeva fedeltà. Lontano dalla retorica ravvivò l’appartenenza. Un popolare radicato nel suo popolo”.
È stato davvero così, anche visto da vicino. L’ho frequentato molto nella mia esperienza di parlamentare, gli sono stato vicino e lui volentieri mi ascoltava, anche quando non era d’accordo, dicendo: “In fondo noi siamo della stessa generazione e ci capiamo”. Non era proprio vero, lui era del 1933 ed io avevo 14 anni di meno, però era vero che eravamo cresciuti nello stesso contesto politico, quella della repubblica dei Partiti, tutti e due nella corrente di Forze Nuove della Dc. Posso ricordare alcuni episodi.
Sulla caduta del governo Prodi nel 1998 aveva una posizione molto pragmatica. Aveva scongiurato che fosse evitata la conta parlamentare, una votazione che ebbe poi infatti un esito drammatico, perché mancarono i voti sulla fiducia, bruciando la possibilità di rifare un Prodi due. Ricordo che si dette molto da fare per cercare voti aggiuntivi, ma Prodi cadde in aula. Cosa fare poi? Andare al voto o costituire un altro governo? Con Franco facemmo una lunga passeggiata dal Senato alla sede del Ppi esaminando le varie soluzioni. Lo vedevo incerto, per questo non ha mai avuto fondamento, a mio giudizio, l’idea di un “complotto” tra lui e D’Alema per far cadere Prodi. Poi si decise per il governo D’Alema, il voto era impedito dal delicatissimo momento: l’Italia stava entrando nell’euro.
Ricordo l’elezione per il Presidente della Repubblica che doveva succedere a Scalfaro. Da trattativista Franco aveva avuto un impegno da D’Alema al momento della formazione del governo che il capo dello stato sarebbe stato di estrazione popolare. Aveva proposto le candidature di Nicola Mancino e Rosetta Jervolino. Fu avanzato (soprattutto da Veltroni) il nome di Ciampi. Mi mandò ad esplorare il gruppo ds del senato per capire se c’erano dei margini, gli dovetti dire naturalmente che di fronte alla candidatura di Ciampi non c’era partita. Lo sapeva già, ovviamente, ma voleva che ci fosse un passaggio formale, non troppo impegnativo mandando me, e prese atto dandosi poi da fare per contenere qualche malumore in casa Ppi che voleva tradursi in un non voto in aula.
Ho vissuto l’elezione di Franco Marini a Presidente del Senato. Ero vicecapogruppo della Margherita e facevo parte della “squadra” che doveva costruire le condizioni dell’elezione. Situazione difficile, con maggioranze risicate, voti contestati. Il centrodestra candidò Andreotti (che poi mi disse di essersi pentito). Ero nello studio con Franco a vivere lo scrutinio. Lui faceva finta di niente, ma si capiva la legittima tensione…Cercò davvero di essere il presidente di tutti, come aveva promesso. Ma ebbe vita difficile, il Senato era incattivito, la maggioranza era esigua e si arrivò alla caduta di Prodi e alle elezioni anticipate.
Franco non è che fosse innamorato dell’ulivismo e del Pd. Non gli piaceva quella che lui chiamava la politica frou frou. Pensava sempre alla solidità di posizioni politiche radicate negli interessi del popolo. Contava la sua esperienza sindacale e credeva fortemente nel valore dell’organizzazione. Però era un pragmatico. Sapeva leggere gli eventi ed adattarsi. Ricordo una riunione ristretta con lui, il capogruppo del Senato Leopoldo Elia e quello della Camera Antonello Soro. C’era stato il pessimo risultato alle elezioni europee del 1999. Bisognava decidere se come Ppi si dovesse dare via libera alla creazione della Margherita. Io non ero neppure iscritto al Ppi, ma Elia mi invitò perché portassi le impressioni sul voto in Veneto. Io naturalmente sostenni le ragioni dell’adesione convinta al progetto Margherita. Franco ascoltò tutti e tre con attenzione e decise che bisognava procedere, salvaguardando però l’originalità delle posizioni popolari. Poi fu Pierluigi Castagnetti a guidare il Ppi nella confluenza nella Margerita.
Infine una volta lo accompagnai dal cardinal Ruini. Era il periodo difficile della discussione dei Dico sulla legislazione delle coppie di fatto. Franco difese con un coraggio da leone il valore della laicità della politica, per nulla intimidito di fronte al presidente della Conferenza Episcopale italiana. Era fatto così. Un uomo libero, forte delle sue convinzioni, intransigente sui principi, flessibile sulle soluzioni.
Era anche un oratore appassionato, come doveva essere un buon sindacalista. Gli piaceva ragionare, prendeva pochi appunti su un piccolo foglio di carta, una busta usata, o cosa aveva sotto mano, e poi sviluppava i suoi ragionamenti, cercava sempre di esporre una visione e una tensione verso il futuro, ma sempre con i piedi per terra.
P.s. Avrebbe potuto essere Presidente della Repubblica succedendo a Napolitano. E sarebbe stato un ottimo Presidente. I voti c’erano. Al primo scrutinio ottenne voti che sarebbero stati sufficienti per passare al quarto scrutinio quando non era più necessaria la maggioranza qualificata. Il Pd in preda ad una crisi di nervi perse la testa, si scatenò la canea di neo parlamentari ignoranti eletti senza merito che non conoscevano nulla della storia nobile di Franco Marini. Si ritirò Marini e si bruciò anche Prodi.