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mercoledì, Aprile 30, 2025
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Siria, futuro terreno di scontro tra Israele e Turchia?

Entrambi alleati di Washington, sia pure con modalità assai diverse, i due Paesi rischiano così di creare nuovi problemi all’Amministrazione USA, desiderosa al contrario di accelerare il proprio disimpegno dalla regione.

Da qualche tempo è tornato un velo di silenzio sulla Siria. Cosa sta accadendo nel paese dopo la presa del potere da parte degli ex jihadisti di Hayat Tahrir al Sham (HTS) e la fuga a Mosca del dittatore Bashar al-Assad?

Le cronache internazionali ci hanno informato, sostanzialmente, solo del massacro avvenuto agli inizi di marzo: circa 800 civili alawiti impegnati in un tentativo di rivolta guidato da ufficiali del vecchio esercito del deposto tiranno uccisi, con esecuzioni sommarie, dalle forze di polizia governative. Una spirale di violenza che ha attraversato tutto il governatorato costiero di Latakia (Tartus, Jableh e altri centri minori) appannando l’immagine dell’Amministrazione (come il nuovo governo vuole farsi chiamare), che a parole sin dai primi giorni della rivoluzione predica tolleranza e integrazione fra le diverse componenti religiose e sociali della nazione. Un atteggiamento, o forse una scelta, indispensabile per ottenere dalla comunità internazionale un riconoscimento e soprattutto la rimozione delle sanzioni economiche che tuttora attanagliano la Siria, a partire da quelle statunitensi.  

In ogni caso, la repressione attuata nella regione di Latakia è stata giustificata da Arabia, Qatar e Giordania oltre che dalla Turchia, principale alleato del governo guidato da Ahmad al-Sharaa. Mentre Israele, al contrario la ha giudicata molto severamente, quasi a voler ergersi a protettore degli alawiti.

In realtà quello che emerge è un possibile nuovo motivo di frizione fra Ankara e Tel Aviv, le due potenze regionali che vogliono allargare il loro spazio operativo nell’area mediorientale.

Erdogan desidera capitalizzare il successo conseguito col sostegno ai ribelli HTS. L’obiettivo minimo è un “patto di difesa” che preveda il dispiegamento di mezzi militari turchi sul territorio siriano. Anche in funzione anti-ISIS, consentendo così alle forze USA tuttora presenti in loco, proprio a quello scopo, un ritiro che certo è negli obiettivi di Trump. Ciò consentirebbe a Ankara un ancor più invasivo controllo delle aree di confine e del settentrione siriano, e naturalmente un ulteriore “presa” sul governo di Damasco.

Netanyahu, per contro, non solo non si fida di al-Sharaa, continuando a vedere in lui l’islamista radicale cresciuto in al-Qaeda e poi nell’ISIS. Ma soprattutto vuole cogliere l’occasione fornitagli dall’indebolimento dell’Asse della Resistenza costruito nel tempo dall’Iran e dalla ancora confusa situazione siriana per acquisire nuovi territori-cuscinetto nel sud di quel paese, al confine con le alture del Golan occupate ormai per intero. I bombardamenti effettuati in questi mesi nella zona allo scopo di distruggere i depositi di armi e munizioni ivi presenti sono inquadrabili in questo obiettivo. La medesima logica che muove pure azioni analoghe nel sud del Libano: ampliare i territori-cuscinetto (e indebolire ancor più Hezbollah).

Ma il bombardamento effettuato agli inizi di aprile nell’area della base militare di Tiyas, vicino a Palmira cioè nel centro della Siria e quindi ben lontano dal confine ha invece tutta l’aria d’essere un monito alla Turchia, che proprio lì – nella zona denominata T4 – vorrebbe dispiegare propri sistemi di difesa antiaerea e droni armati pronti all’uso.

I rapporti fra Israele e Turchia sono tornati tesi all’indomani dell’invasione di Gaza operata dall’IDF. Le durissime affermazioni di Erdogan rivolte contro lo stato israeliano e il suo Primo Ministro non sono state dimenticate, e oltre a ciò – sapendo delle relazioni da sempre intercorse fra Hamas e la Turchia – Tel Aviv vuole avvertire Ankara della propria totale indisponibilità ad accettare un qualsiasi eventuale trasferimento del gruppo di comando del gruppo terrorista da Gaza alla Siria.

Entrambi alleati di Washington, sia pure con modalità assai diverse, i due Paesi rischiano così di creare nuovi problemi all’Amministrazione USA, desiderosa al contrario di accelerare il proprio disimpegno dalla regione favorendo l’allargamento dei c.d. Accordi di Abramo. I quali però pongono al vertice dell’iniziativa il terzo grande attore della regione, quell’Arabia Saudita non ancora amica di Israele e decisa avversaria – nella comune fede sunnita – di una Turchia neo-ottomana che vorrebbe ergersi a primaria garante delle popolazioni musulmane, ruolo sino ad oggi indiscutibilmente detenuto dal Regno nel quale sono presenti i luoghi sacri dell’Islam.

Anche nel Medio Oriente il mondo non è così semplice come se lo immagina Donald Trump.