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domenica, 18 Maggio, 2025
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Un’omelia non politica o politicamente vera?

Le parole di Leone XIV nella messa d’inizio pontificato toccano l’etica concreta e scuotono ogni potere chiuso. Un invito all’inquietudine della fede, contro i capi-padroni e le derive autoreferenziali.

I commenti a caldo sull’omelia di Papa Leone XIV evidenziano subito il richiamo all’unità e all’amore, sulla spinta delle parole di Agostino citato più volte, e sottolineano come non abbia avuto prima facie una connotazione “politica” e programmatica. 

Ma siamo sicuri che i bellissimi passaggi delle riflessioni di Leone XIV, sul piano dell’etica concreta che delineano, non siano per ciò stesso, politici in senso alto?

La celebrazione solenne per l’inizio del ministero petrino di Leone XIV è cominciata con la lettera di Pietro apostolo in cui abbiamo ascoltato: “pascete il gregge di Dio (…) non come padroni delle persone a voi affidate”. L’omelia del nuovo Pontefice si è aperta (dopo le parole di Agostino: “ci hai fatto per Te, Signore”), con la considerazione che il Signore non abbandona mai il suo popolo, ma lo “raduna quando è disperso”.

È proseguita con un accenno importante a uno dei testi più profondi del filosofo danese Søren Kierkegaard, quel “Timore e tremore” in cui i tre giorni della salita di Abramo per compiere il sacrificio di Isacco non vengono descritti come il tempo facile, gioioso e pacifico, della fede in un Dio che chiede perfino il sacrificio dell’unico figlio: sono tre giorni inquieti, pesanti, difficili, con un peso sul cuore che è il peso della scommessa con se stessi e con le proprie miserie davanti a qualcosa di grande in cui si crede e che sentiamo valga più di noi stessi. È la grandezza di Abramo, nell’inquietudine della fede. L’inquietudine che torna, verso la fine dell’omelia, in un’altra frase di Leone sulla chiesa che “si lascia inquietare dalla storia”. 

L’omelia continua con l’invito a “non chiuderci nel nostro piccolo gruppo”: il pericolo dei piccoli gruppi si cela dietro la tentazione (a cui è chiesto a  Pietro di rifuggire) di “essere un condottiero solitario o un capo posto al di sopra degli altri”, oppure quella di “catturare gli altri con la sopraffazione, con la propaganda religiosa o con i mezzi del potere”, o ancora la tentazione della “paura del diverso” e del “paradigma economico”che emargina, sfrutta. 

“Se questo criterio – chiede Prevost con le parole di Leone XIII nella Rerum Novarum – prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio, e non tornerebbe forse la pace?”. “E noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità”, parole che fanno eco a quelle che furono di Benedetto XVI.

Se, invece, come appare, possiamo correre il rischio di convincerci che la politica, in ogni spazio della vita associata (ecclesiastica, istituzionale, amministrativa, accademica, associativa, amicale), sia rappresentata dall’incondizionata adesione al gioioso manifesto programmatico di un piccolo gruppo chiuso o di un capo-padrone al di sopra, senza l’inquietudine delle scelte, della pluralità, e dell’amore per gli uomini, questa omelia di Leone XIV dovrebbe farci pensare.