La recrudescenza della violenza giovanile, che è un aspetto della violenza di genere e dei femminicidi, è un problema emergente in modo esponenziale che riguarda tutti, non solo gli specialisti che si interrogano sulle cause di questo fenomeno. Rubricando anche solo i fatti degli ultimi mesi il fermo immagine di questa piaga sociale ci descrive una realtà devastante. Non c’è più tempo da perdere: occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, bisogna che qualcuno abbia il coraggio di spezzare queste spirali perverse, ricominciando a parlare di senso del dovere, di rispetto, di dignità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita e formazione individuale, ripristinando il concetto del “limite invalicabile”.
Famiglia e scuola: un’alleanza in crisi
Per contrastare la violenza giovanile bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività. Purtroppo il contesto su cui occorrerebbe agire è ampio e diversificato, non esiste intanto un target sociale di riferimento prevalente anche se spesso questi fatti accadono in ambienti di degrado e di vuoto etico e pedagogico ma abbiamo conosciuto storie di violenza omicidiaria anche tra studenti universitari o laureati, culturalmente in grado di discernere il bene dal male.
Addebitare le colpe soltanto alla società non rende giustizia alle azioni criminali che dipendono da fattori individuali e soggettivi, anche se non si può negare che l’educazione ricevuta in famiglia e poi dalla scuola ha un’influenza decisiva. Affermare che la scuola deve pensare all’istruzione mentre sono padre e madre a doversi occupare dell’educazione dei figli è un vulnus che sta all’origine di tanti guai. I ruoli genitoriali sono in rapida obsolescenza e la famiglia sta diventando il primo anello cedevole in termini di autorevolezza e buon esempio. Hanno ragione coloro che stigmatizzano il lassismo di padri e madri che consentono orari notturni ai propri figli, proprio a partire dalla minore età e spesso per il timore di ribellioni, fughe, ritorsioni in famiglia, che li proteggono e difendono pregiudizialmente, che hanno perduto il senso del ‘no’ di fronte alle richieste di soldi, di uscite piene di incognite e di rientri antelucani, che non sanno dove sono e con chi sono i propri ragazzi.
Il buco nero del web
Ma possiamo ancora chiamare famiglia quel contesto dove ciascuno si isola per smanettare il proprio smartphone? Perché è l’incultura dei social a diventare prevalente, il buco nero del web consente viaggi pieni di incognite, senza censure, senza paletti e si materializzano condizioni emotive estreme in assenza di guide e controlli, si radicano solitudini incomprese. Possiamo dire che i social sono la prima causa di tanti apprendimenti sbagliati e fuorvianti e di conseguenti comportamenti azzardati e pericolosi.
In rete ci finiscono cyberbullismo e revenge porn, solipsismo e negazionismo: tutto è facile, tutto è fattibile fino a perdere la coscienza critica, vero mentore dell’esistenza. E come affermano con cognizione e autorevolezza Andreoli, Crepet, Morelli il cd. ‘raptus’ è solo una giustificazione ricorrente anche negli stessi autori di azioni delittuose: non ci si può trincerare dietro l’affermazione ‘era un bravo ragazzo, non so spiegarmi cosa gli ha preso’. Narcisismo, senso proprietario di possesso della vita degli altri, rimozione del rischio, autoindulgenza non possono giustificare un comportamento doloso, la consapevolezza di scegliere la scorciatoia del male, confidando in un bravo avvocato o nella clemenza di un tribunale.
Una società che appare senza coscienza e senza guida
Come scrivo da tempo – a costo di ricevere le critiche dei buonisti e degli inclusivi di facciata – non servono il pentitismo postumo, le fiaccolate, i palloncini liberati al cielo: oltre la commozione (quella vera è però più composta) sono in prevalenza retorici nascondimenti per coprire con una sorta di catarsi collettiva, in quel composito assembramento umano, la presenza del prossimo colpevole.
La violenza ha radici lontane con ramificazioni inimmaginabili e riguarda tutti quelli che la realizzano e coloro che omettono di recidere – laddove competerebbe – la pianta del male. Siamo in presenza di una società malata e orfana di cultura assimilata, di valori e buoni esempi: in essa crescono giovani e giovanissimi ispirati da super-eroi invincibili che trasmettono un senso di impunità mascherato da gelosia e finto amore, un egocentrismo che confida nella prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti (spesso rimosse da una giustizia cervellotica), che è informato sugli sconti di pena e sulla sua valenza riparativa.
Ma siamo anche tutti parte di una umanità dolente e inconsapevole, dove si alimentano solitudini siderali e una concezione minimalista della stessa esistenza ridotta alla mercè dell’effimero, dell’inutile e del breve.
Che per questo non vale la pena di vivere o di essere vissuta, per fortuna non per tutti.