Nell’europeismo dei nostri padri c’era una grande intuizione geopolitica. Ma forse c’era anche qualcosa di troppo didascalico, quasi rituale. Le vecchie generazioni, almeno da un certo momento in poi, sapevano che quella scelta era obbligata. E dunque si finiva per ripetere le sue parole d’ordine con convinzione, ma anche con una certa facilità. L’Europa appariva all’epoca come un destino a cui si doveva adempiere con diligenza, senza troppa fantasia.
A quei tempi, fu un cammino glorioso. Ma forse non così impervio. Le nuove generazioni si affacciano oggi su tutt’altro panorama. L’atlantismo non c’è quasi più. E la costruzione europea è diventata ormai un’architettura troppo complessa, segnata da troppe crepe, accompagnata da un senso di fragilità. L’allargamento a est non è stato il pranzo di gala che si pensava alla vigilia. E i grandi conflitti geopolitici che squassano il pianeta hanno finito a poco a poco per riverberarsi dentro le strutture portanti dell’Unione.
Per questo oggi le nuove generazioni hanno un compito ben più difficile, pari a quello a cui furono capaci di adempiere i grandi architetti politici del nostro immediato dopoguerra. Esse non possono più amministrare l’esistente. Debbono provvedere a nuove regole. E debbono farlo in nome di ideali politici animati da una qualche forma di grandezza.
La nuova dimensione europea torna ad essere quella del rischio. Poiché appunto tutto il sistema globale attraversa una fase di grandissima turbolenza. E immaginare di affrontare quella turbolenza affidandosi al tran tran di sempre renderebbe quel rischio quasi fatale.
Fonte: La Voce del Popolo – 10 luglio 2025
Articolo qui riproposto per gentile concessione dell’autore e del direttore del settimanale della diocesi di Brescia.