«Diamo tempo, ci dicano che cosa è successo», ha affermato il cardinale Pietro Parolin in un’intervista a Tg2 Post, con il tono cauto del diplomatico esperto ma anche con parole cariche di inquietudine. L’attacco alla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza nel contesto della guerra in Medio Oriente pone, secondo il segretario di Stato della Santa Sede, interrogativi gravi: è stato davvero un errore, come si è detto in un primo momento? Oppure – domanda Parolin – si è trattato di una volontà precisa di colpire «un elemento di moderazione», come sono appunto i cristiani in quella regione martoriata?
Il sospetto non è da poco: se fosse confermato, significherebbe voler eliminare qualsiasi soggetto terzo, capace di favorire il dialogo tra le parti. In altri termini, «la volontà di far fuori qualsiasi elemento che possa aiutare ad arrivare alla pace».
Il disincanto della diplomazia vaticana
Parolin, nella stessa intervista, ha descritto con lucidità la difficoltà di una mediazione della Santa Sede. Non per difetto di volontà: «Restiamo aperti e ci proponiamo», ha spiegato. Ma una mediazione è possibile solo se le parti la accettano. E al momento, «tecnicamente è molto difficile», proprio perché manca la disponibilità esplicita dei contendenti.
Parole che suonano come un’amara constatazione. «Ci deve essere volontà politica per finire la guerra», ha insistito Parolin. Ma quella volontà oggi sembra più lontana che mai, e l’ottimismo di alcuni leader regionali – come il premier israeliano Netanyahu – appare secondo Parolin poco convincente: «Vorrei crederlo», ha detto il cardinale, lasciando intendere di non illudersi.
Il nodo di Gerusalemme, capitale contesa
Nella posizione vaticana si intrecciano la preoccupazione per i cristiani locali e una visione costante del Medio Oriente come crocevia di tensioni ma anche di possibili convergenze spirituali. La Santa Sede, al contrario degli Stati Uniti di Trump che nel 2017 riconobbero Gerusalemme come capitale di Israele, ha sempre sostenuto l’internazionalizzazione della città santa, con uno statuto speciale garantito da una autorità terza.
Questa posizione – più che mai attuale – è riaffiorata in filigrana nelle parole di Parolin. Gerusalemme non può diventare il simbolo dell’esclusione, né tantomeno il campo di battaglia tra appartenenze religiose. La Chiesa lo ripete da decenni, nella consapevolezza che una pace duratura può nascere solo dal rispetto reciproco tra le fedi.
Netanyahu e la chiamata a Leone XIV
Il segnale del Vaticano non è passato inosservato. La telefonata di Benjamin Netanyahu a papa Leone XIV, avvenuta nelle ore successive all’attacco alla chiesa cristiana, va letta anche come un tentativo di contenere gli effetti diplomatici e simbolici di una possibile rottura con la Santa Sede.
In un momento in cui ogni gesto pesa, le parole del cardinale Parolin assumono il valore di un appello alla responsabilità. La Santa Sede non si chiama fuori: resta, come sempre, a disposizione per facilitare percorsi di pace. Ma non accetta di essere ridotta al ruolo di spettatrice muta. E ancor meno, di diventare bersaglio.