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martedì, 5 Agosto, 2025
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Israele più solo: vince sul piano militare, perde su quello politico

Mentre l’offensiva contro i proxy iraniani si intensifica, cresce l’isolamento internazionale dello Stato ebraico, ormai sostenuto solo dagli Stati Uniti. Ma l’equilibrio interno in Iran e in Medio Oriente è in evoluzione.

Israele sta perdendo la guerra della comunicazione. Su questo non c’è dubbio. Una sconfitta che lo Stato ebraico si è procurato da sé, a causa del suo disumano comportamento verso la popolazione civile di Gaza. Il risultato è un crescente isolamento politico, che coinvolge ormai anche le opinioni pubbliche e le classi dirigenti dell’Occidente. Se la situazione dovesse proseguire su questa linea, al fianco di Israele resterebbero solo gli Stati Uniti, ma anche questi ultimi sembrano aver tracciato una “linea rossa” da non oltrepassare. Lo si è capito quando persino il presidente Trump — ed è tutto dire — ha smentito Netanyahu a proposito della carestia indotta nella Striscia.

La guerra dell’immagine e l’illusione della forza

Perdere sul terreno mediatico e politico equivale a perdere del tutto. Ma chi oggi guida Israele pare non volerlo comprendere, perché continua a guardare solo al piano militare. E lì, va detto, sta vincendo. Lo dimostra la condizione attuale dell’Iran, primo nemico giurato dello Stato ebraico, che da anni sostiene e alimenta una rete di organizzazioni ostili — i cosiddetti “proxy” — distribuite in tutta la regione mediorientale.

Teheran, dopo l’attacco americano ai suoi siti nucleari, ha scelto un profilo basso: segno dell’efficacia dei raid israeliani prima, e del bombardamento USA poi. Nel Paese cresce una sorda opposizione interna, anche se — a differenza di quanto avvenne tre anni fa con la rivolta delle donne seguita all’omicidio di Mahsa Amini — non si sono ancora verificate manifestazioni di massa. Intanto all’interno del regime è in atto un confronto serrato tra l’ala moderata del presidente Pezeshkian e la corrente più radicale dei Guardiani della Rivoluzione. La Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, in età avanzata e con salute incerta, sembra aver perso parte della sua presa sul potere. I vertici dei pasdaran, un tempo giovani della Repubblica islamica, oggi sono figure di una gerontocrazia sempre più distante dalla popolazione giovanile, che anela a una libertà mai conosciuta.

La crisi dei proxy

Anche i proxy sono in crisi. I durissimi attacchi dell’IDF ai loro vertici e alle basi operative hanno prodotto effetti tangibili. Lo si è visto con Hezbollah, il potente “partito di Dio” che controlla ampie aree del Libano. Dopo i bombardamenti sull’Iran, Hezbollah ha dichiarato di non voler avviare alcuna rappresaglia contro Israele: un segnale inequivocabile di debolezza. I suoi leader sono stati eliminati, molti miliziani uccisi, e le rampe di lancio dei missili a lunga gittata quasi annientate.

Lo stesso vale per altre forze dell’“Asse della Resistenza”, il reticolato di gruppi sciiti finanziati da Teheran. Tra questi, l’iracheno al-Hashd al-Shaabi, parzialmente integrato nell’esercito di Baghdad, e i noti Houthi, attivi nello Yemen. Questi ultimi, pur ancora in grado di colpire con droni e missili le navi nel Mar Rosso, hanno subito una riduzione significativa del proprio potenziale offensivo nel corso del 2025.

L’ultima sponda siriana

Infine, con la caduta di Bashar al-Assad è venuta meno anche la Siria, alleato strategico dell’Iran non solo per la comune matrice sciita (alawita), ma per la sua posizione: snodo finale del “Corridoio sciita” tra Iraq, Libano e Mediterraneo. Israele ha colto l’occasione per condurre missioni offensive nel Paese, ufficialmente in difesa della minoranza drusa, ma in realtà per colpire un’area di influenza ormai considerata instabile e inaffidabile.

Ecco perché a Tel Aviv si pensa di essere sulla strada giusta per una vittoria definitiva. Ma commettere l’errore di guardare solo all’aspetto militare delle cose rischia di rivelarsi fatale. I governi occidentali, sia pure in ritardo, stanno cercando di farlo capire a Netanyahu e al suo esecutivo. Ma — come recita un vecchio adagio — non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.