L’articolo pubblicato sul Los Angeles Times da Josh Rottenberg ieri, 7 agosto, apre uno squarcio sul futuro della narrazione audiovisiva. Hollywood non sta solo osservando l’evoluzione dell’intelligenza artificiale: la sta abbracciando, riformulando il concetto stesso di cinema e storytelling.
Non è più fantascienza. È presente.
Le protagoniste? Aziende come Luma AI, con sede a Los Angeles, che tramite la sua piattaforma Dream Machine consente di creare video realistici a partire da semplici istruzioni testuali. Ad esempio, digitando “una donna che attraversa la strada sotto la pioggia” si ottiene una clip perfettamente coerente e visivamente raffinata. Il tempo di generazione? Pochi secondi.
Una delle funzioni più sorprendenti è chiamata Modify Video: consente di alterare contenuti esistenti con un semplice comando. Vuoi che un cappotto diventi un mantello, o che una giornata estiva si trasformi in una bufera di neve? Basta scriverlo. Nessun green screen, nessun effetto speciale tradizionale. È editing istantaneo, con una fluidità che in passato avrebbe richiesto settimane di post-produzione.
Come spiega Rottenberg, la promessa di queste tecnologie non è solo l’efficienza, ma la democratizzazione dell’accesso alla narrazione audiovisiva. A fronte di un prompt ben scritto, chiunque può generare una sequenza visiva di qualità cinematografica.
Il sogno (o l’incubo?) del cinema su misura
Il CEO di Luma, Amit Jain, immagina un futuro in cui i film non saranno più prodotti per grandi pubblici omogenei, ma realizzati su misura per ciascun utente. Un thriller ambientato nel proprio quartiere, una commedia in cui compaiono volti di amici reali, una saga epica dove l’eroe ha il volto dello spettatore.
È la logica del cinema “iper‑personalizzato”, che sfrutta il potere dell’AI per rispondere al gusto, al contesto e perfino all’umore del fruitore.
Rottenberg osserva che questa prospettiva “aumenta le opportunità creative”, ma comporta anche il rischio di svuotare di senso l’esperienza collettiva del cinema. Dove finisce la regia, dove comincia l’algoritmo?
Hollywood si interroga: evoluzione o deriva?
Il reportage non tace le preoccupazioni. Da una parte c’è chi intravede una nuova primavera dell’immaginazione visiva, una creatività distribuita e accessibile. Dall’altra, emergono paure fondate: la perdita di artigianalità, il declino dell’originalità, il pericolo di una bulimia di contenuti superficiali generati in automatico.
Studios e sindacati stanno discutendo come regolamentare l’uso dell’AI nei processi creativi. Ma nel frattempo, le piattaforme crescono, gli strumenti si perfezionano, e una generazione di giovani autori digitali si forma al di fuori dei canali tradizionali.
L’impressione finale dell’articolo di Rottenberg è chiara: l’AI non rimpiazzerà il cinema, ma ne cambierà i connotati. Chi saprà utilizzarla con intelligenza, empatia e visione potrà scrivere nuove pagine, forse irripetibili, della grande narrazione visiva.
Perché il racconto, oggi più che mai, è anche un algoritmo. Ma resta — nella sua essenza — una scelta umana.