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sabato, 23 Agosto, 2025
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Il punto di non ritorno della democrazia israeliana

L’ostinazione di Netanyahu, stretto tra processi personali e alleati estremisti, rischia di condurre lo Stato d’Israele all’isolamento e a una lacerazione profonda della sua stessa identità democratica.

Ormai non è più solo Sinistra per Israele bensì è anche larga parte della popolazione israeliana (come si è visto con le manifestazioni di domenica scorsa) a contestare in toto la politica del governo Netanyahu, volta ad occupare Gaza, a restringere gli spazi dei palestinesi in Cisgiordania allargando quelli dei coloni, a negare ogni possibilità per uno Stato di Palestina, a immaginare la deportazione dei palestinesi in qualche stato povero dell’Africa tipo il Sud-Sudan.

Poiché Israele è ancora una democrazia, eventuali elezioni anticipate dividerebbero radicalmente il Paese ma è assai dubbio che la coalizione di estrema destra oggi in stretta maggioranza alla Knesset riuscirebbe a vincerle. Questo è un motivo in più per rimanere avvinghiati al potere e non dividersi. Ciò comporta, per il premier, seguire le richieste sempre più esigenti avanzate dai due leader radicali della destra religiosa ultranazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Netanyahu da parte sua – come ogni osservatore internazionale sostiene da quasi due anni in qua – ha tutto l’interesse personale a non interrompere una guerra che gli consente di rimanere al governo senza dover affrontare i processi intentati a suo carico, che potrebbero concludersi con una severa condanna.

Impossibilitata a contrastare le terribili scelte del governo, una parte dell’opposizione, quella centrista del Partito dellUnità Nazionale di Benny Gantz (a suo tempo uscito dal governo di unità nazionale sorto dopo il 7 ottobre proprio in contrasto con il massacro avviato a Gaza) sta valutando un possibile ritorno nell’esecutivo (come anticipato da il Domani dItalia ieri l’altro) per ridurre in esso l’impatto funesto della destra radicale e per virare verso una tregua con Hamas in cambio della restituzione di tutti gli ostaggi, quelli vivi e quelli defunti. Mossa tutta da valutare, oltre che discutibile. E naturalmente avversata dalla destra oltranzista. Dubbio che possa concretizzarsi.

Ma il punto vero resta un altro. Presa questa strada distruttiva e isolazionista, supportata ormai solo dagli Stati Uniti di Donald Trump e osteggiata da tutto il resto dell’Occidente, fin dove può spingersi Netanyahu? Politico di lungo corso non può non rendersi conto (se non è offuscato completamente dall’odio come i suoi ministri estremisti) che le sue scelte stanno conducendo il suo Paese all’isolamento internazionale, a perdere qualsiasi sentimento di empatia nei suoi confronti nonostante quanto subìto il 7 ottobre 2023, a vedere sempre più stati riconoscere quello di Palestina. A lacerare, infine, sempre più Israele.

Perché questo è il punto di non ritorno verso il quale Netanyahu, più o meno consapevolmente, sta conducendo Israele. La rottura drammatica del patto democratico sul quale è stato fondato.