Il recente attacco di Donald Trump all’indipendenza della Federal Reserve, con il tentativo di rimuovere una governatrice sgradita, Lisa Cook, non è una bizzaria o una casualità. Si inserisce in un contesto più ampio, con elaborazioni teoriche di centri studi conservatori come la Heritage Foundation, tesi ad affermare la cosiddetta Unitary executive theory. Secondo questa dottrina, sostenuta a suo tempo dall’Attorney General Bill Barr, il Presidente sarebbe il titolare esclusivo di quello che si definisce “potere esecutivo”: nessuna agenzia, nessun regolatore, nessuna authority dovrebbe operare al di fuori (e quindi al di sopra) del suo intervento diretto, sostituendosi alla sua funzione e responsabilità.
Una visione seducente per chi sogna un capo capace di decidere senza intralci, ma certo incompatibile con la tradizione costituzionale americana dei checks and balances.
Le critiche della dottrina giuridica
Del resto, la letteratura accademica è ricca di rilievi critici rispetto a questa impostazione. L’Albany Law Review ha parlato di una concezione “sbagliata e anti-americana”, ricordando che i Presidenti non sono dei monarchi. Da parte invece della Stanford Law Review si sottolinea come il richiamo alle origini storiche sia distorto: i Padri fondatori concepirono un esecutivo forte, ma non assoluto. La Harvard Law Review, a sua volta, ha mostrato come l’espansione del potere presidenziale nel Novecento abbia trasformato l’amministrazione da “governo sotto la legge” a “governo sopra la legge”, aprendo la strada a derive autoritarie.
Non mancano richiami alle sentenze della Corte Suprema: dal caso Humphrey’s Executor del 1935, che sancì la legittimità delle agenzie indipendenti, fino alle più recenti decisioni in materia di rimozione di funzionari pubblici, la giurisprudenza ha sempre cercato un equilibrio, pur con oscillazioni non sempre rassicuranti negli ultimi anni.
Un rischio per la democrazia
Ciò che oggi appare in gioco non è un tecnicismo costituzionale, ma l’essenza stessa del governo democratico. L’accentramento dei poteri nelle mani di un solo uomo riduce gli spazi di controllo parlamentare, comprime l’autonomia degli organismi regolatori e finisce per minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. L’America conosce bene i pericoli di una “imperial presidency”: già negli anni Settanta, con Nixon, la lezione fu dolorosa.
La critica di molti studiosi non è dunque sterile formalismo, ma un appello a difendere l’idea che l’Amministrazione deve restare sotto la legge e non al di sopra di essa. Il rafforzamento dell’esecutivo può avere senso in termini di efficienza, ma non fino al punto di trasformare la Costituzione in un simulacro.
La democrazia, per essere autentica, esige che si pongano dei limiti al potere. Bisogna tenerlo presente anche nel dibattito in corso in Italia sulla riforma costituzionale che mira a introdurre il premierato a investitura popolare diretta. La pretesa di un Capo assoluto – al vertice della Repubblica o dell’Esecutivo – non è un segno di forza, ma di fragilità istituzionale. Ed è soprattutto un segno pericoloso.