Il disastro compiuto dalle leadership occidentali negli ultimi due decenni ha proporzioni bibliche. Ciò che vediamo in questi ultimi anni ne è la conseguenza diretta.
La Cina e l’illusione della globalizzazione
Pensiamo in primo luogo alla Cina. Nel dicembre 2001, la Cina viene ammessa nel WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio). Grande opportunità per la Cina e grande problema per l’Occidente: nessuna vera ed esigibile regola di reciprocità viene posta alla base di questo ingresso.
Nel frattempo, l’Occidente a guida americana scommette tutto sulla globalizzazione, ad ogni livello. Non si pone il problema del “governo globale” del processo: anzi, assiste senza batter ciglio al progressivo sgretolarsi delle Istituzioni multilaterali e allo sfarinarsi del Diritto Internazionale. Pensa che il “mercato” si auto regolerà.
E deregolamenta la crescita delle tecnologie digitali in maniera così forte da creare le basi per le grandi concentrazioni oligopoliste che oggi dominano il pianeta.
Il gioco viene accolto dalla Cina con grande entusiasmo. Mentre gli Stati Occidentali (ed in modo particolare l’Europa, con la normativa in tema di “aiuti di Stato”) teorizzano e praticano il ritiro dei poteri pubblici dal mercato – anche in settori strategici – essa rafforza la sua idea di turbo-capitalismo a guida e a sostegno finanziario statale.
Le leadership americane ed europee hanno pensato – soprattutto con l’era Clinton e con la suggestione della “Terza Via” di Tony Blair (triste vederlo oggi protagonista del folle progetto della “nuova Gaza”, depurata dai palestinesi) – che liberalizzare il mercato globale portasse alla “democratizzazione” del Mondo e della Cina in particolare. Pensiero diffuso, ma purtroppo del tutto infondato.
Oggi la Cina – proprio rafforzando la sua natura di regime autoritario, controllato dal Partito Unico – è diventata una potenza economica e geopolitica globale.
Il summit dello SCO e l’isolamento occidentale
Il summit dello Sco (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) ha riunito in questi giorni decine di Paesi, che rappresentano quasi la metà del PIL mondiale, uniti attorno all’idea di un “nuovo ordine mondiale” alternativo a quello a guida occidentale.
Spiccava – oltre ovviamente a quella di Putin, il nuovo Zar imperialista di Mosca – la presenza di molti tra i peggiori e più liberticidi despoti del pianeta. E quella del leader indiano, speriamo non definitivamente aggregato a quel patto, ma spinto a Pechino a seguito della folle politica dei dazi del governo americano, come bene ha scritto su HF Gianni Vernetti.
A fronte di questa iniziativa, l’America vive la sua stagione peggiore di involuzione democratica sul piano interno e di isolamento sul piano internazionale.
E l’Europa, nella sua ormai altalenante ma acclarata solitudine rispetto all’America di Trump, fatica a trovare la propria unità ed il proprio slancio anche sulle scelte di minore importanza. Non parliamo poi su quelle strategiche, come ha detto lucidamente Mario Draghi al Meeting di
Rimini qualche giorno fa.
Le “Afriche” dimenticate
Pensiamo in secondo luogo all’Africa, o meglio “alle Afriche”.
Un continente in rapida trasformazione, da qualche tempo completamente abbandonato dall’Occidente, salvo le maldestre presenze francesi e le ormai decrescenti iniziative di cooperazione allo sviluppo di alcuni Paesi Europei (quelle americane, Trump le ha cancellate in uno dei suoi primi atti esecutivi).
Il FMI a guida occidentale, da parte sua, ha imposto regole finanziarie stringenti ai Paesi Africani che avevano iniziato un loro percorso di sviluppo. Con la conseguenza che oggi molti di essi, per assolvere ai doveri del servizio al debito (attualmente in larga parte dovuto a fondi globali privati e non a Stati Nazionali: questione che rende oltremodo difficile perseguire la strada del “condono del debito” da sempre evocata dai Pontefici) sono costretti a ridurre drasticamente gli investimenti pubblici in sanità e formazione.
Nel frattempo, Cina, Russia e Paesi Arabi del Golfo stanno realizzando una nuova, massiccia forma di neo-colonizzazione politica ed economica nelle Afriche, anche con forme di presenza militare indiretta a sostegno dei regimi dittatoriali che presidiano, a nome loro, le risorse naturali più strategiche.
Un suicidio per l’Occidente e soprattutto per l’Europa, alla luce delle dinamiche demografiche del continente africano ma anche delle prospettive economiche e geopolitiche di lungo periodo.
Il “Piano Mattei”, varato dal Governo Meloni, pur positivo, è in questo senso nulla più di una goccia nel mare delle necessità ed è oltretutto pensato in ottica essenzialmente di interesse energetico e di breve periodo.
Una prospettiva euro-africana per l’Europa
Ed invece, se l’Europa volesse e potesse ragionare in una prospettiva strutturale di lungo periodo, visti i nuovi scenari globali che si stanno consolidando, dovrebbe considerare strategica la prospettiva “Euro-Africana”, quanto meno al pari della storica prospettiva “Euro-Atlantica” e certamente più di quella “Euro-Asiatica”.
La prima, che è stata, per nostra fortuna, l’architrave della nostra moderna storia democratica e del nostro sviluppo sociale ed economico, pare oggi resa molto precaria dalla trasformazione del “sogno americano” nell’incubo dell’America First, interpretata da un “trumpismo” che temo sopravviverà allo stesso Trump.
La seconda – simboleggiata dall’incontro a Pratica di Mare del 28 maggio 2002 tra Berlusconi, Bush e i leader della Nato con Vladimir Putin – abbiamo visto che fine ha fatto. Al di là del dramma ucraino, mezza Europa Orientale rischia di essere sotto scacco del nuovo imperialismo russo e delle sue strategie di guerra ibrida e di ostile penetrazione politica.
Certo, ogni prospettiva – pena il declino irreversibile dell’Europa e l’archiviazione delle sue ambizioni di essere libera e di esercitare un ruolo di attore globale, non di satellite di altri – richiede un rapido e radicale salto di qualità nei processi di integrazione politica, finanziaria, economica e militare del Vecchio Continente. Altro che “ritorno alla vecchia CEE” come va cinciando Salvini.
Una nuova proposta politica al centro
I segnali sono pessimi. Sia nei Governi europei, sia in molte forze politiche (non solo a destra, ahimè) incapaci di leggere i fenomeni che accadono, sia nelle opinioni pubbliche, sempre più indotte a seguire le suggestioni nazionaliste e populiste.
Ma questa è la battaglia prioritaria che dobbiamo combattere, perché è quella che dà senso, ormai, a tutto il resto. Alla nostra sicurezza democratica, come a quella economica e sociale.
Leggo sul Domani d’Italia la lucida riflessione di Marco Follini (ripresa dalla Voce del Popolo), dal titolo “Un pezzo di Paese senza rappresentanza”.
Ecco, proprio sul terreno della politica estera e della visione internazionale si può intravvedere lo spazio per una nuova proposta politica che dia voce alla nostra cultura politica. Ma per colmare il deficit di Rappresentanza di cui scrive giustamente Marco, più ancora che di congetture sulle riforme elettorali, abbiamo bisogno di generosità e coraggio politico. Oltretutto, le prime, oggi, non dipendono certo da noi, mentre la generosità ed il coraggio politico sì.
Piantiamola di dare credito alle tante micro iniziative costruite in “franchising” da altri; di accreditare ambigue presenze “civiche” che avrebbero il ruolo di una sorta di “legione straniera” per coprire al centro il Campo Largo; di ritenerci ognuno il perno aggregatore del tutto. Oggi nessuno è in grado di farlo.
Questo stallo sostanziale, del resto, spiana solo la strada per l’espansione al centro (elettoralmente, non certo nei contenuti) della Destra al Governo.
Le vicende a cui si assiste, poi, in vista delle prossime elezioni regionali sono, in tal senso, del tutto allucinanti.
O riteniamo che la cultura politica del Centro di ispirazione popolare sia condannata a rifugiarsi nell’ambito della testimonianza culturale, oppure decidiamoci a dare vita ad una sorta di federazione strutturata di soggetti politici nazionali e locali che abbia però la sua autonomia costituiva, il suo profilo politico, la sua “proposta al Paese”.