Come riporta AsiaNews, in Giappone il termine kodokushi (孤独死) indica la morte di una persona sola in casa, scoperta soltanto dopo giorni o settimane. Non si tratta di episodi sporadici, ma di un fenomeno sociale sempre più diffuso. I dati dell’Agenzia nazionale di polizia parlano chiaro: nei primi sei mesi del 2025 si sono registrati 40.913 decessi in solitudine domestica, quasi 3.700 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E in oltre un quarto dei casi (11.669 persone) la morte è stata scoperta solo dopo otto giorni.
Radici culturali e sociali
Le cause principali rimandano all’invecchiamento della popolazione – un abitante su quattro ha più di 65 anni – ma non solo. “Sempre più persone vivono lontano dal luogo d’origine, dove c’era la famiglia o la comunità di riferimento. In città ci si conosce poco e costruire legami diventa faticoso”, osserva padre Marco Villa, missionario del Pime a Koshigaya, alla periferia di Tokyo. In Giappone, aggiunge, esiste anche una forte “ritrosia a chiedere aiuto”: prevale la paura di disturbare gli altri, con la conseguenza di affrontare in totale autonomia i propri problemi.
Il servizio del Centro “Mizu Ippai”
Per rispondere a questa emergenza, padre Villa ha dato vita nel 2012 al Centro d’Ascolto Mizu Ippai (“un bicchiere d’acqua”). È un luogo di sostegno per persone sole, compresi gli hikikomori, giovani e adulti che vivono in auto-isolamento. “La solitudine che incontro è sconvolgente – confida –. Spesso arrivano notizie di persone trovate morte in casa dopo giorni. A volte persino chi ha rapporti sociali rischia di cadere in questa condizione”. Il centro coinvolge volontari che offrono ascolto non solo nella sede, ma anche in luoghi pubblici come la stazione ferroviaria, punto naturale di incontro.
Le istituzioni e le nuove sfide
Il governo giapponese ha iniziato a promuovere reti territoriali e strutture di supporto, per incoraggiare momenti di aggregazione. Sono tentativi importanti, ma la sfida resta enorme. Per molti, infatti, la solitudine viene “colmata” dal dialogo con strumenti tecnologici o persino con l’intelligenza artificiale. “Un ragazzo mi ha confidato che l’AI è l’unica a capirlo – racconta il missionario –. Ma non può sostituire la relazione umana”.
La chiave, secondo padre Villa, sta nella semplicità dei gesti: “Basta poco per invertire la rotta: creare occasioni di incontro, diventare amici di chi vive in solitudine, offrire un aggancio umano. È da lì che può nascere la speranza”.
[Rielaborazione da un servizio di AsiaNews]