«L’unico modo per non far conoscere agli altri i propri limiti è di non oltrepassarli mai.»
(Giacomo Leopardi)
Il saggio sulla temperanza di Gennaro Carillo, edito da Il Mulino, non ha la pretesa della monografia tematica: piuttosto offre al lettore spunti di riflessione attinti dai classici del pensiero, da Platone, Sofocle, Euripide ai giorni nostri. Le chiamerei “scintille di luce” queste citazioni, perché illuminano la storia dell’umanità con intuizioni che restano – nelle parole pronunciate e nelle metafore che evocano – e che ci servono oggi in modo speciale, per ricomporre una dialettica e una filosofia della mitezza in un mondo che sembra “uscire dai cardini”. Un’agile ed utile riflessione che esprime la profonda cultura umanistica dell’autore che si rivolge a tutti, perché ritrovare una giusta misura nel dire e nel fare è un compito che ci riguarda tutti, intimamente.
La rivisitazione etimologica e di senso di questa virtù dimenticata che il Prof. Carillo ha realizzato suggerisce al lettore di trovarne una propria. E’ questo il pregio fondamentale di un libro: leggere, metabolizzare, riflettere per cercare una propria ‘Weltanschauung’, una concezione del mondo che orienti la nostra vita.
Facendo mia questa “intuita intuizione” mi piace riportare deduzioni e argomentazioni personali, confidando di restare fedele all’ispirazione di Carillo in modo ‘temperante’, senza uscire dal sentiero da lui tracciato e per applicare la sua bussola alla alterne vicende dell’esistenza.
Fare uno, due, tre passi indietro: mi pare sia un esercizio mentale che non ci è più consueto.
E’ proprio il senso della misura il vero convitato di pietra al banchetto delle relazioni sociali del nostro tempo.
I toni aggressivi prevalgono sulla comunicazione moderata e interlocutoria così come le esternazioni prevaricatrici hanno il sopravvento sulla capacità di controllo delle turbolenze dell’anima.
Sembra questa la percezione più avvertita nel sentire comune, come se fosse diventato un atteggiamento tendenzialmente prevalente nel modo di porsi e di cui ci accorgiamo soprattutto nel momento in cui lo subiamo, al punto di incuterci ansie e timori.
Non è solo questione di oggi quanto piuttosto modalità espressiva ricorrente nella natura umana, quasi elemento costitutivo e ontologico della sua complessità strutturale, fatta di pulsioni e di razionalità, di sentimenti e stati d’animo contrastanti.
Non per niente il suo opposto, come ci ricorda San Tommaso, è considerata una virtù.
Parliamo di quella temperanza che Cicerone definiva come dominio fermo e moderato della ragione, controllo delle passioni e giusta misura di ogni cosa.
E’ un atteggiamento che possiamo ereditare da una buona educazione o che maturiamo attraverso scelte e convincimenti interiori?
Sicuramente sono vere entrambe le cose.
Resta da chiedersi se questa capacità di esercitare il controllo e la moderazione ma anche di possedere il senso della misura del sé e della proporzione degli esiti delle nostre azioni e dei nostri sentimenti in rapporto alle circostanze della vita sia utile, possibile e attuale.
Non dobbiamo eludere e non possiamo nasconderci infatti il valore positivo e appagante delle emozioni e quanto sia ricca e sorprendente la gamma dei sentimenti.
Una vita priva di emozioni è una vita senza senso, piatta, insignificante.
Ma un’esistenza dominata esclusivamente dalle emozioni e dai sussulti, dagli eccessi e dalle intemperanze ci allontanerebbe da quella condizione di equilibrio, di pacatezza e di razionalità che ci permette invece di accreditarci con una stabile e rassicurante identità positiva nell’universo dei rapporti interpersonali.
Avvertiamo infatti la necessità e per certi aspetti anche il dovere di mitigare modi, forme e circostanze delle nostre esternazioni e – prima ancora – di praticare la buona regola del rispetto di sé, per evitare quegli “spaesamenti” interiori che producono disorientamenti, tensioni, sdoppiamenti ma anche frustrazioni e sensi di colpa.
Controllare in modo appropriato le pulsioni conservando possibilmente la tranquillità dell’animo e riservando agli altri il rispetto che si richiederebbe per sé: questo potrebbe essere un proposito onesto e sensato.
Come anche cercare l’armonia spirituale e l’equilibrio interiore, convivere con i sentimenti e le emozioni “stemperando” – appunto – quel mix di tensioni, toni sopra le righe, alterazioni, istinti smodati, o viceversa di modalità eccessive nella ricerca dell’autocontrollo e della sobrietà.
Il biglietto da visita di una persona temperante consiste nella discrezione come immagine di sé e modo di porsi, icona di uno stile di vita personale centrato sulla moderazione e sul senso della misura.
Chi perde di vista questo valore aggiunto dimostra di non possedere quella capacità di regia, ora forte e risoluta ora mite e discreta, che governa il dentro e il fuori di sé, il pathos e l’immagine, l’essere e l’apparire.
La virtù della temperanza consiste dunque nell’abilità di modulare e dosare chiaro-scuri, alti e bassi, timbri, toni e registri di quel flusso di emozioni, sentimenti, comportamenti, stati d’animo con cui incessantemente ci rapportiamo con il mondo delle persone e con le loro intrinseche relazioni, cercando dentro e fuori di noi la giusta misura di una sostenibile armonia.