L’autocrate di Ankara porta avanti una politica di chiusura all’interno e di spregiudicata aggressività all’esterno. Al di là delle apparenze, rischia in effetti l’isolamento, se non altro rispetto all’Europa e all’USA. Del resto, in occasione del G20 a Roma, non ha imitato il Presidente dell’India, Narendra Modi. Questi è andato a cingere con una corona di fiori il busto marmoreo di Gandhi all’Eur. Un analogo gesto poteva essere fatto dal leader turco: a distanza di qualche centinaio di metri, sullo slargo stradale intestato ad Atatürk, si staglia un piccolo monumento che ricorda ilpolitico della modernizzazione dell’ex Impero Ottomano. L’iscrizione reca questa scritta: “Pace in Patria, pace nel mondo”. Troppo per Erdogan!
Sono molti e gravi gli interrogativi che le decisioni assunte negli ultimi anni -in particolare dopo il fallito golpe del luglio 2016- da Recep Tayyip Erdogan hanno posto alle cancellerie occidentali. E nessuno di essi ha ancora ricevuto una risposta definitiva. In genere ci si rifugia nella formula “neo-ottomana”: il politico già democratico fattosi autocrate col tempo e con la gestione prolungata del potere che vuole pervicacemente far tornare la Turchia nel grande gioco della diplomazia mondiale, divenendo un player fondamentale in un ambito geografico da essa già frequentato e in parte dominato ai tempi dell’impero ottomano. Ed in effetti dalle coste occidentali del Mediterraneo a quelle orientali e poi, oltre, all’interno sino alle porte dell’oriente, nella regione del Nagorno-Karabakh, la vivace azione politica dell’uomo forte di Ankara ha posto la Turchia in primo piano sino a portare alleati (ma lui li considera davvero tali?) e avversari a domandarsi fin dove voglia spingersi.
Proviamo a riassumere in breve, negli stretti limiti di un semplice articolo, le questioni aperte.
Membro della NATO, e non di secondaria importanza: sia per il posizionamento geografico, sia per entità del suo apparato militare, incluso il numero degli effettivi, sempre più frequentemente Erdogan si è mosso prescindendo dall’Alleanza: la quale ogni volta ha reagito timidamente, creando così le condizioni per il futuro scarto dell’irrequieto membro. L’acquisto dalla Russia di un sistema missilistico antiaereo è stato il punto di maggior criticità raggiunto sinora, ma non l’unico. Le differenze di visione su Siria e Libia sono evidenti. In entrambi i casi Erdogan ha posto innanzi a tutto la sicurezza territoriale del proprio Paese. Ciò risulta molto evidente nelle scelte operate con riferimento al primo quadrante, quello siriano. Le due operazioni militari condotte su quel suolo (“Scudo dell’Eufrate”, nel 2017 e “Ramoscello d’Ulivo”, nel 2018) avevano un obiettivo prioritario: evitare che si creasse un “corridoio curdo” che dai confini turchi arrivasse sino al Mediterraneo, prodromico alla creazione di uno Stato curdo che per Erdogan è l’incubo peggiore, inaccettabile e da evitare ad ogni costo.
La difesa dei confini e un accentuato nazionalismo hanno contraddistinto le scelte di Erdogan dopo il fallito colpo di stato, riportando in auge se non proprio la figura almeno la concezione dello Stato turco di Kemal Ataturk, anche se con un taglio assai meno laico e certamente più islamizzato. In questa logica ogni insediamento curdo al di là dei confini, in Siria nella regione del Rojava, è considerato una minaccia per la Turchia e quindi non è accettabile. E pertanto il futuro della Siria è affare anche nostro, dice in sostanza Erdogan a russi, americani e iraniani.
In Libia l’intervento turco ha invece i tratti più simili a quel neo-ottomanesimo del quale si parla sempre più spesso. Anche in questo caso ogni mossa è stata decisa a prescindere da qualsivoglia logica atlantica ponendo una volta di più la NATO di fronte al fatto compiuto. Ma divenendo così – sfruttando l’inerzia americana e soprattutto europea – il protagonista, insieme ai russi, presente e futuro della regione libica, così ricca di risorse naturali e così povera di statualità.
È evidente però che questa autonomia d’azione poco si concilia con l’appartenenza ad un’alleanza, un’anomalia che prima o poi condurrà ad un chiarimento che non sarà facile, né scontato. E sarebbe troppo semplicistico, da parte di Erdogan, immaginare che il ritrarsi americano dalle vicende del Mediterraneo sia l’equivalente di un ritiro assoluto. Non sarà così, Washington non abbandonerà completamente l’area.
I rapporti con la UE, oggetto del desiderio di una Turchia proiettata ad occidente che non c’è più (o che quantomeno non c’è nella piattaforma politica del partito al potere) sono e rimangono tesi, ultimamente anche di più, dopo l’espulsione dal Paese di alcuni ambasciatori di paesi amici e anche alleati (sette della NATO). Un rapporto imperniato su un contratto esoso – quello sui migranti trattenuti in Turchia – che Erdogan gestisce con l’arma del ricatto nei confronti di governanti timorosi dell’impatto negativo in termini elettorali derivante da una possibile “invasione” di tre milioni di persone, l’oggetto del contratto.
Nel Mediterraneo orientale, non bastasse la permanente occupazione (dal 1974) di Cipro Nord, la Turchia ha aperto un contenzioso sulle “Zone economiche esclusive” nelle acque del Mare Nostrum fra Grecia e Cipro, creando una ZEE libico-turca che collega la sponda sud-occidentale turca con quella nord-orientale libica. Un tratto di mare presumibilmente ricco di giacimenti di gas naturale. Un accordo siglato fra i due Paesi che non è stato riconosciuto dalla UE, ma che Erdogan ritiene pienamente operativo, anche perché rivolto a rendere il Paese assai meno dipendente di adesso dall’energia importata (il 90% di quella consumata).
All’Europa cristiana l’autocrate di Ankara ha inviato un ulteriore messaggio ben poco distensivo, questa volta sul piano religioso e culturale: allorquando ha trasformato in moschea la Basilica di Santa Sofia di Istanbul (divenuta museo ai tempi di Ataturk), ovvero la medesima azione ostile che fecero gli ottomani nel 1453 dopo la conquista di Costantinopoli.
E i rapporti aperti col regime talebano appena reinsediatosi a Kabul confermano una linea intraislamica che mira a conquistare maggiori spazi nel mondo sunnita in contrapposizione, soprattutto, all’Egitto del generale al-Sisi reo di aver disarcionato dal potere i Fratelli Musulmani e indubbio possibile competitor nella lotta per acquisire ruolo geopolitico e, come si è detto, miglia marine sulle quali esercitare diritti di perlustrazione.
Il risultato di così vasto interventismo consiste però nella perdita di qualsiasi possibile amico fidato, se si esclude il Qatar (a sua volta un battitore libero del mondo sunnita avente ambizioni probabilmente superiori alle sue forze). Con gli USA le relazioni sono improntate al sospetto, con la UE il rapporto è solo di convenienza su un tema specifico, nel mondo islamico i Fratelli Musulmani cui Erdogan si richiama sono in evidente difficoltà. E i suoi connazionali, nelle principali città – Istanbul e Ankara – gli hanno votato contro alle elezioni municipali. Dopo che le elezioni del 2018 le aveva vinte col solo 52%. La domanda allora è, certo, “dove vuole arrivare Erdogan” ma, anche, “come può immaginare di arrivarci da solo?”.