A Caltagirone, nel segno di Sturzo, per essere ”portatori sani di laicità”. Intervista a Salvatore Martinez

Serve un nuovo discernimento comunitario, serve studio e fraternità, serve definire con competenza e compassione un nuovo impegno, che sia prima culturale e poi sociale e politico.

Articolo già apparso sulle pagine di www.politicainsieme.com

Tre giorni intensi a Caltagiorne, in occasione del centenario dell’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo. Animatore dell’iniziativa Salvatore Martinez che ci ha rilasciato la seguente intervista.

D) 100 anni dall’Appello ai liberi e forti. Molto è cambiato, eppure l’elaborazione sturziana resta valida nel metodo e in molti suoi contenuti

Martinez: L’Appello ai liberi e forti rappresenta un’affermazione ragionevole e vitale dell’identità cristiana; una felice sintesi di “realismo e personalismo cristiano” che caratterizzò, in modo esemplare ed eroico, la testimonianza del servo di Dio don Luigi Sturzo.

L’Appello palesa un modo concreto ed efficace di essere laici, “portatori sani” di laicità nella storia; indica la possibilità di essere socialmente organizzati per rendere politicamente agibili i grandi valori del Cristianesimo. Si legge, infatti, nell’Appello: «Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, inspirandoci ai saldi principii del Cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia».

Dodici sono i punti del Programma che esplicitano l’Appello; uno dopo l’altro mostrano ancora oggi lungimiranza politica e spirito profetico, una compiuta visione dello Stato e della società, un rimando concreto alla vita della gente e ai bisogni primari di una comunità civile.

A Caltagirone, nei giorni 14 – 16 giugno riproponiamo l’attualità di questo Programma, riaffermando il “metodo sturziano” della corresponsabilità sociale; di fatto, quanto già suggerito da Papa Francesco a Firenze, in occasione del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana: “La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà” (Cattedrale di Firenze, 10 novembre 2015).

Le principali Organizzazioni, Movimenti, Associazioni, Istituzioni accademiche e culturali d’ispirazione cristiana si ritrovano a Caltagirone all’insegna del motto sturziano “uniti e insieme” nel desiderio di dare nuova cittadinanza a quell’umanesimo ordinato secondo lo spirito cristiano, fortemente voluto e testimoniato dal prete di Caltagirone. Il monito è ancora forte, ripreso lapidariamente anche da Papa Francesco: «I credenti sono cittadini!». L’Appello è un invito a essere laici e laici cristiani; un invito concreto ed efficace, paradossale e profetico a essere “portatori sani” di laicità nella storia. Parole che indicano, cento anni fa come oggi, la possibilità di essere socialmente organizzati per rendere politicamente agibili i grandi valori del Cristianesimo.

D) Chiara in Sturzo la distinzione tra i diversi livelli in cui è immerso il cristiano. In qualche modo lo si può vedere  anticipatore del Concilio Vaticano II nell’affrontare la questione del laico parte integrale della Chiesa e, al tempo stesso, pienamente coinvolto nelle cose del mondo?

 Martinez: Per cogliere l’attualità dell’Appello, occorre ricordare che don Luigi Sturzo aggettivava “cristiana” la democrazia nel senso che la delineava in nome di principi saldi, eticamente validi, spiritualmente stringenti, al fine di contenere il dilagare dell’immoralità pubblica; dunque, dell’individualismo, dell’elitarismo, della dimenticanza dei poveri, in definitiva di tutto ciò che poteva discendere dall’esercizio del “potere” in luogo del “servizio”, con tutte le ingiustizie sociali che ne conseguono.

Scriveva don Sturzo: “Anche nella vita pubblica è necessario creare o ricreare l’atmosfera della moralità cristiana, e questo non può essere fatto che dai veri cristiani. Se questi, invece di cooperare, si tengono in disparte per paura della «politica» (quante volte nella mia vita ho sentito pronunciare questa parola con un senso di disgusto, non so se per ignoranza, fariseismo, egoismo, pigrizia o peggio), allora partecipano direttamente o indirettamente alla corruzione della vita pubblica, mancano negativamente o positivamente al loro dovere di carità e, in certi casi, anche di giustizia (in “Problemi spirituali…”, pag. 82).

Il pericolo peggiore che sta attraversando il nostro Paese è l’assuefazione del popolo di fronte al dilagare dell’immoralità. É paradossale che l’insensibilità al male, l’arrendevolezza dinanzi ai mali sociali che denigrano la dignità della persona e mortificano il valore della stessa comunità umana, si vadano giustificando con l’idea che sia sinonimo di modernità una vita pubblica moralmente inquinata, in cui è vera libertà l’autonomia da ogni legge morale o da ogni verità, con l’affermarsi del bene individuale sul bene comune, della forza sino alla prepotenza di pochi sulle debolezze di molti.

Chi pone rimedio a questi squilibri? Cosa fanno i laici cristiani in questa ora, non meno complessa e contrastata di cento anni fa? C’è, talvolta, tra noi, una sorta di complesso d’inferiorità dinanzi al male che si accanisce sulla storia. Si vorrebbe una sorta di cristianesimo svilito, diluito, banalizzato, anonimo. Ebbene, come ha scritto un celebre martire cristiano evangelico del Novecento, il pastore Dietrich Bonhoeffer, «noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta; dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo» (* in “Resistenza e Resa”).

Spetta ai laici cristiani elaborare una sintesi creativa fra fede e storia, tra fede e cultura, tra fede e carità, tra fede e servizio; una sintesi che trovi il suo fulcro nell’amore, che renda l’uomo capace di resistere al male e di vincere il male con il bene.

La fede non è una teoria; è una via, quindi una prassi, meglio un insieme di buone prassi. Tra il nostro “essere cristiani in questo mondo” ed “essere uomini e donne in questo mondo senza essere del mondo” non potrà mai esserci coincidenza: ed ecco il nostro permanente soffrire, il disagio della coscienza, il prezzo della coerenza, di una fede che è autenticata dalla sua immersione nella vita sociale e politica di un popolo.

La missione non è cambiata, è la stessa di sempre. “Dall’idea al fatto” (diceva Sturzo), potremmo ridire dagli ideali alle buone pratiche, dai principi alla loro attuazione. Una missione suffragata oggi da un grande bisogno di trasparenza, di partecipazione, di corresponsabilità: istanze che emergono impetuose dalla gente; voci che invocano aiuto e che anche nella protesta, nell’antipolitica, nella scelta di seguire la logica del “male minore” ribadiscono, in fondo, l’urgenza di una democrazia che torni ad essere “popolare”, soprattutto nel rapporto tra i “decisori” e i “destinatari” della vita politica.

D) Come valuta il dibattito che si è sviluppato da gennaio in avanti sul messaggio sturziano alla luce dei 25 anni di diaspora in cui siamo stati immersi? Ha notato un clima nuovo?

Martinez: Occorre intanto ribadire, ed è la buona notizia spesso taciuta, che l’Italia può ancora contare più di ogni altro Paese al mondo su una società civile ricca di fermenti ideali, religiosi, culturali, economici: reti sociali, movimenti, associazioni, fondazioni, comunità. Sono una straordinaria forza “prepolitica”, capace di riaffermare ideali e valori in modo concreto e di tradurli in buone prassi; sono la dimostrazione tangibile che l’umanesimo cristiano non ha ancora trovato alternative vincenti capaci di rispondere ai bisogni essenziali dell’uomo e di rispondere alle domande fondamentali che riguardano la vita e una vita che sia veramente umana.

Occorre, più di ieri, procedere “uniti e insieme”, come diceva lo stesso don Sturzo.

È vero che dinanzi alla crisi di rappresentanza politica, di classi dirigente, di leadership, alcuni sono passati dalla proposta alla protesta; altri si sono chiusi nell’indifferenza, protesi a salvaguardare le piccole rendite di posizione. Si sono registrate contrapposizioni anche in nome della comune fede che professiamo, finanche divisioni nell’obbedienza a quel Magistero spirituale e sociale di cui tutti noi siamo figli ed espressioni, ciascuno dove è posto e opera ed è chiamato ad essere testimone.

È però finita la stagione dei “cattolicesimi di destra, di centro e di sinistra”; è finito il dualismo tra cattolicesimo popolare e cattolicesimo democratico o tra cattolicesimo pneumatologico e cattolicesimo sociologico. Nel tempo delle “vacche magre” nel quale viviamo e come diretta conseguenza della perdita dell’identità nelle nostre comunità, occorre rifare il tessuto cristiano della nostra società, ridefinire un progetto ancor prima che un programma che ridia slancio profetico alla nostra tradizione, a quell’umanesimo cristiano che rimane il più potente strumento di trasformazione e di progresso, il migliore alleato di un futuro giusto per l’uomo, per ogni uomo, a partire o dalla sua dignità sempre integrale e trascendente.

Il clima è nuovo; sicuramente più sereno. Non mancano i nostalgici o coloro che pensano di avere “la ricetta” in tasca. Serve un nuovo discernimento comunitario, serve studio e fraternità, serve definire con competenza e compassione un nuovo impegno, che sia prima culturale e poi sociale e politico.

D) La questione partito si, partito no…

Martinez: San Giovanni Paolo II insegnava che “nel tempo della crisi i capi non s’improvvisano; occorrono tempi lunghi e severità d’impegno”. Non mi sembrano mature le condizioni per parlare di un nuovo partito, a condizione che non lo si voglia stampella di altri partiti oggi maggioritari. Per ritrovare fiducia e consistenza nella proposta e nel consenso, occorre ancora lavorare dal basso, in mezzo alla gente, ristabilendo un nuovo dialogo, esprimendo una prossimità che si è perduta fino a spingere molti a cercare altri interlocutori. I leader non nascono dai libri o nei convegni; direbbe Papa Francesco devono avere “l’odore delle pecore”, dunque il sudore e le lacrime del popolo che s’impegnano a servire. E servono giovani, una nuova generazione, formata, appassionata, tecnicamente preparata, ben guidata da padri.