“L’esigenza di elaborare una teoria filosofica della pace nasce dalla constatazione di quanto sia ormai indispensabile mettere a tema e sottoporre a critica severa un aspetto della filosofia moderna e contemporanea che sorvola sulle ragioni teoriche che spiegano le relazioni di coesistenza sociale in nome della pace”.
Flavio Felice
Immersi come siamo nel dramma quotidiano della guerra, credo che il confronto teorico tra una “filosofia della guerra” ed una “filosofia della pace” rappresenti quanto di meglio la filosofia e la teoria politica oggi possano offrire al dibattito pubblico. La Morcelliana ha recentemente ripubblicato il saggio di Sergio Cotta del 1989, Dalla guerra alla pace, mentre Rubbettino ha pubblicato la raccolta, sempre di Cotta, Scritti storico—politici, a cura di M.S. Birtolo, D. Galimberti, A. Landolfi, A. Zarlenga, con prefazione di Lorenzo Scillitani.
L’itinerario filosofico tracciato da Cotta prende avvio dalla pace e conduce alla pace, nella convinzione che «in principio è il Logos», ovvero la dimensione dialogica delle relazionalità, piuttosto che il Polemos della tradizione eraclitea. E proprio nel frammento di Eraclito, Cotta intravede il punto di congiunzione di due filoni del pensiero moderno: la linea di pensiero Machiavelli, Hobbes, Spinoza, secondo la quale la guerra avrebbe un fondamento antropologico: «in principio è la guerra»; e quella che da Humboldt giunge a Giovanni Gentile, passando per Hegel, che invece teorizza il valore vitale della guerra. L’esigenza di elaborare una teoria filosofica della pace nasce dalla constatazione di quanto sia ormai indispensabile mettere a tema e sottoporre a critica severa un aspetto della filosofia moderna e contemporanea che sorvola sulle ragioni teoriche che spiegano le relazioni di coesistenza sociale in nome della pace. In pratica, Cotta contesta l’idea che la pace sia in primo luogo una questione di ordine pratico, nel senso di operativo; Cotta non esclude la pratica dell’institution building e del peace research, non intende sostituire l’arte della politica con la teoresi filosofica, piuttosto considera l’azione politica e la ricerca filosofica due piani paralleli e complementari.
Qui entra in scena la lezione di Sant’Agostino e l’idea di socialità come dialogicità. In tal modo, afferma Cotta, Agostino intraprende un cammino che gli consentirà di tematizzare la pace come primum antropologico e non come derivato della politica. Il compito della politica, tutt’altro che sovrano, è servire e nutrire la tranquillitas ordinis nella quale possa fiorire tale attitudine originaria e sarà questa la posizione che secoli dopo assumerà anche Luigi Sturzo nel negare il primato della politica e nel dichiarare fuorilegge la guerra. In pratica, Agostino afferma che senza la pace «nulla sarebbe», di conseguenza, la pace è la condizione stessa della vita.
Un ulteriore argomento a favore della tesi sulla originarietà della pace è rinvenuto da Cotta nella tesi di Emmanuel Lévinas. In Totalité et infini afferma che la guerra spezza «la continuità delle persone» e rende di conseguenza «derisoria» qualsiasi morale, in nome di un male inteso realismo politico. La realtà, a dispetto della realpolitik così ammantata di ragion di Stato, è che l’essere dell’uomo si caratterizza quale «un essere per l’altro», in opposizione alla prospettiva antropologica dell’ontologia della soggettività isolata hobbesiana, del pessimismo antropologico di Machiavelli ovvero dell’ontologia della «ragione impersonale che si realizza nella storia» di Hegel.
Un autentico realismo ci insegna che, così come la morte appartiene alla vita, in quanto immanente alle sue pulsioni, ai pensieri e alle attività umane, così la pace e la guerra si rincorrono e tendono a negarsi a vicenda. La guerra non è un assoluto, così come non lo è la pace, sono entrambe manifestazioni dell’umano: la proiezione della tensione che alberga nel cuore di ciascuna persona, secondo la suggestiva narrazione di Agostino che distingue la civitas Dei dalla civitas hominum, con i relativi “amori” che le caratterizzano.
Se con Agostino possiamo affermare che «in quanto è razionale l’essere è pace», comprendiamo che il processo di autocomprensione dell’io passa per la conoscenza dell’altro, al punto che l’altro è indispensabile alla conoscenza dell’io e rivela l’assurdo della posizione storicista-dialettica che, affermando la guerra come principio vitale, nega la relazionalità ontologica dell’uomo e rende incomprensibile l’uomo all’uomo.
Spogliata del suo carattere naturale, la guerra viene ricondotta a ciò che concretamente è: la negazione dell’essere e, per il cristiano, la vanificazione della creazione. Non è un caso che nella celebre allegoria del Buongoverno di Siena, la cui immagine appare sulla copertina del saggio Dalla guerra alla pace, la personificazione della pace occupi il centro della scena e che nel giuramento pronunciato dai reggenti della città, in occasione del loro insediamento, venisse enunciato in maniera diretta il compito che avrebbero assunto, impegnandosi a conservare la città di Siena «in bona pace et concordia».
Fonte: L’Osservatore Romano – 5 dicembre 2022
[Articolo qui riproposto per gentile concessione del quotidiano della Santa Sede)
Flavio Felice
Ordinario di Storia delle dottrine politiche, Università del Molise.