ABITARE O DIMORARE? LA CITTÀ E I NUOVI MODELLI DI VIVERE SOSTENIBILI.

 

“Credo che gli architetti e gli urbanisti – scrive l’autore in questo articolo pubblicato in originale dall’Osservatore Romano – piuttosto che procedere a operazioni di rigenerazione, che significano sempre interventi su manufatti, dovrebbero cercare soluzioni di ri-abitare, ovvero di ricostruire comunità creando le condizioni di riprodurre i luoghi ove si genera la vita”.

 

Enzo Scandurra

 

Partirò da una riflessione di Carlo Maria Martini, appena giunto in Gerusalemme: «…io sono nato qui, a Gerusalemme […] Mi pareva di essere davvero nato lì, di essere sempre vissuto a contatto con quelle pietre». E tuttavia Martini non cercava l’utopia di una città ideale, ma un ideale di città, dove ci fossero spazi di silenzio anche nel centro della città e dove ci fossero piazze in cui la gente potesse ritrovarsi per capirsi e scambiare i doni intellettuali e morali di cui nessuno è privo. Gerusalemme, la città, dunque, come luogo di amicizia, dell’ospitalità, la città dello shalom, la pace (C. Maria Martini, Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli 2002, p. 28).

 

Quando un greco parla di polis intende anzitutto la sede, la dimora, dove una persona ha le proprie radici. Un giorno, durante un convegno, don Franzoni, l’animatore della comunità di San Paolo, mi chiese quasi a bruciapelo: «qual è la differenza tra giaciglio e letto?». Allora non seppi rispondere e ci misi anni per capirlo. La modernità, questa modernità, ha introdotto una cesura tra i due termini. Il giaciglio è la dimora, il letto è invece definito dalla sua funzionalità: il posto dove dormire. Più in generale le nostre case sono mini appartamenti standardizzati sparpagliate nelle grandi periferie.

 

Noi occidentali viviamo tutti in questi alloggi circondati da centri direzionali, uffici, centri commerciali, strade, viali, aree di sosta o di traffico, spesso isolati da alte mura e provviste di videocitofoni, in una desolante solitudine.

 

Ma il luogo dell’abitare non è l’alloggio così come il giaciglio non si riduce al letto. L’abitare non è vivere in un alloggio dove si guarda la televisione, si mangia e si dorme. Il luogo dell’abitare è la città dove ci si incontra, ci si riconosce, dove si celebrano feste e dove si rinnovano amicizie.

 

Non abbiamo bisogno di spazi, ma di luoghi, perché lo spazio è il cadavere dei luoghi: quello spazio cartesiano, isotropo, misurabile e senza confini.

 

Anche i nomadi avevano i loro luoghi: i grandi tappeti che li seguivano sempre durante i loro spostamenti, quei tappeti che marcavano i territori ed indicavano l’abitazione del nomade. «Il luogo è un insieme di relazioni, di legami, magari controversi e mutevoli», afferma l’antropologo Vito Teti, «eppure indispensabili. Nel paesaggio acronico dell’infanzia si formano la nostra esperienza estetica e percettiva e la nostra soggettività, il rapporto con gli oggetti e le relazioni con il mondo e con le persone. In quell’intercapedine che sfugge alla misura ferrea del divenire accadono epifanie, stupefazioni e profezie» (V. Teti, La Restanza, Milano, Mondadori 2022, p. 22).

 

Anche Cesare Pavese avvertiva l’esigenza di un paese, ovvero di un luogo nel quale tornare: un paese ci vuole, scriveva, aggiungendo: se non altro per andarsene via.

 

Oggi la metropoli ci riserva contenitori e spazi attraversati da flussi: di merci, di folle di consumatori: «È l’avvento del numero, è il flusso continuo della folla tessuto fitto come una stoffa senza strappi, né rammendi, composto da una moltitudine di eroi quantificati che perdono nome e volti divenendo il linguaggio mobile di calcoli e razionalità che non appartengono a nessuno. Fiumi di numeri lungo le strade» (M. De Certeau, Linvenzione del quotidiano, Roma, Ed. Lavoro 1990). Uno spazio indifferenziato dove non è possibile rinvenire dei luoghi.

 

Ma gli uomini non abitano flussi, essi restano ancorati ai luoghi. I luoghi costituiscono le nostre dimore, perché essi producono comunità viventi. C’è un nesso inestricabile tra comunità e luoghi: senza le prime non si danno le seconde e viceversa.

 

Che cosa abitiamo oggi? Abitiamo condomini, siamo delle persone indifferenti le une alle altre che però coabitano in una città che ha perduto il suo valore simbolico, in una città senza confini, in un continuum senza luoghi: questo è il territorio postmoderno. Marc Augè ha inventato la distopia dei non-luoghi: aeroporti, stazioni, caselli autostradali, centri commerciali e direzionali: spazi di attraversamento dove al massimo si scontrano corpi, si producono urti, senza scambiarsi nulla, senza che ci siano relazioni umane.

 

A tal proposito Papa Francesco afferma: «La sensazione di soffocamento prodotta dalle agglomerazioni urbane e dagli spazi ad alta densità abitativa, viene contrastata se si sviluppano relazioni umane di vicinanza e di calore, se si creano comunità, se i limiti ambientali sono compensati nell’interiorità di ciascuna persona, che si sente inserita in una rete di comunione e di appartenenza. In tal modo, qualsiasi luogo smette di essere un inferno e diventa il contesto di una vita degna» (Papa Francesco, Laudato sì, Segrate, Piemme 2015, p. 149).

 

In altri termini, si chiede Cacciari, il territorio postmoderno è la negazione di ogni possibilità di luoghi oppure potranno inventarsi luoghi propri nel tempo in cui la loro vitalità sembra essere negata? È la fine di ogni forma di comunità?

 

«Dovremmo pensare a una rinnovata dimensione dell’idea di casa, di domus, che sia inclusiva e dialogica. Immagino una casa i cui muri possano parlare continuamente di me, di noi, a “dire” una storia, ma la immagino con le porte sempre aperte. Della nostra disponibilità all’accoglienza ormai dipende non solo il futuro, ma anche la partita, altrettanto importante, della salvezza della nostra memoria» (La Restanza, p. 74).

 

Credo che gli architetti e gli urbanisti piuttosto che procedere a operazioni di rigenerazione, che significano sempre interventi su manufatti, dovrebbero cercare soluzioni di ri-abitare, ovvero di ricostruire comunità creando le condizioni di riprodurre i luoghi ove si genera la vita. Ristrutturare e recuperare è solo una parte di questo problema e nemmeno la più importante.

 

A questo proposito mi viene in mente un esempio (storico) illustre. Dopo la pubblicazione del libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, a livello nazionale, soprattutto per merito di Adriano Olivetti si diffonde l’esigenza di mettere fine alla “vergognosa” condizione abitativa dei Sassi di Matera. Sociologi, ingegneri, architetti, antropologi formano un gruppo di studio per elaborare il progetto La Martella, località a pochi chilometri da Matera. Il Capo gruppo degli architetti è il Prof. Federico Gorio che, molti anni dopo, farà queste amare considerazioni: «Inizialmente colpito dalle condizioni di arretratezza e di degrado in cui mi era apparsa la città a una prima visita, decisi di approfondire questa conoscenza — e le relazioni sociali e comunitarie che legavano i suoi abitanti — della realtà dei Sassi. Nei “Sassi” era praticata una particolare civiltà: la civiltà del vicinato, fatta di relazioni dense, di promiscuità, di rapporti di solidarietà. Una civiltà non esportabile in un altro contesto urbano, un “ordine umanissimo” come dirà Gorio attraversandoli: si scende ancora per gli scoscesi vicoli dei Sassi e quello che era sembrato un disordine inumano, impenetrabile alla nostra comprensione come l’intrigo di una vegetazione selvaggia, si dimostra un ordine umanissimo che aveva solo la peculiarità di essere diverso dal nostro . Quanti urbanisti e quanti sociologi cercano invano la pietra filosofale dell’unità di vicinato, cioè di quell’ideale nucleo di più famiglie che l’affiatamento sociale oltre che il destino della convivenza tiene in sesto […]. Ebbene, la vita nei Sassi di Matera, esempio raro, è organizzata secondo una fitta struttura di legami socialmente e topograficamente individuati e circoscritti che la suddividono in tante unità di vicinato» (F. Gorio, Il mestiere di architetto, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1968, p.53). Concludendo con la riflessione di Carlo Maria Martini, potremmo dire: in fondo la mia casa è dovunque, è qui, è memoria, è esilio.

 

 

Fonte: L’Osservatore Romano – 10 dicembre 2022

[Articolo qui riproposto integralmente per gentile concessione del quotidiano della Santa Sede]