Nel giorno dell’addio a un grande giornalista, per tracciare un ricordo fedele di Vittorio Zucconi, è utile partire dalla lettura della sua autobiografia, Il lato fresco del cuscino, pubblicata giusto un anno fa da Feltrinelli.
Nel libro ci sono riflessioni profonde, quelle che occupano la mente con il passare degli anni, le classiche domande sul senso della vita. Ci sono soprattutto pagine di alta letteratura, con quella leggerezza tipica del suo stile. Pur avendo scritto anche sul Corriere e sulla Stampa, Zucconi è un “figlio” del quotidiano Repubblica, anche se lui (a differenza di Scalfari) è giornalismo puro, senza fronzoli, sempre comprensibile, le cinque W, come insegna il buon giornalismo anglosassone.
L’assunto del libro è quello di uno zibaldone di ricordi, buttati giù un po’ alla rinfusa, senza un filo conduttore, né logico né cronologico. Lo schema temporale è, in realtà, quello delle Memorie di Chateaubriand, dove fatti recenti e remoti si alternano secondo una logica interna all’autore, il cui effetto però è di non perdere mai l’attenzione del lettore.
La motivazione dell’autore è quella di spolverare da vecchi taccuini ricordi intimi: il rapporto con la famiglia e con il padre, Guglielmo Zucconi (giornalista anche lui). C’è il ticchettio della Olivetti Lettera 22 paterna a cadenzare le insonnie infantili. Ci sono i ricordi da bambino – le vacanze in Romagna, l’afa del mare Adriatico e i letti intrisi di sudore – o l’alba della liberazione di Kuwait City (1991) “mentre in un albergo rovente di Baghdad si cercava solo di dormire per non pensare alla madre di tutte le guerre”. Un viaggio nella memoria, una ricerca archeologica che diventa il romanzo di una vita, con quel poco di nostalgia che tutti ci possiamo concedere.
L’effetto di tutto ciò è quasi un “realismo magico”, per citare un autore amato da Zucconi, come Gabriel Garcia Marquez. Nel libro si intrecciano ricordi personali e frammenti di storia del mondo, in particolare del mondo comunista. Zucconi è stato corrispondente in Unione Sovietica, durante gli anni della guerra fredda. Ha toccato con mano quello che sarebbe potuto accadere anche da noi, se la via italiana al socialismo non ci fosse stata risparmiata dagli accordi di Yalta (e se la Dc di De Gasperi non avesse vinto le elezioni nel 1948). Eppure nel libro, dove è ben percepibile lo “scampato pericolo”, c’è un senso di rispetto e di simpatia umana per la gente vissuta per decenni al di là della Cortina di ferro.
Zucconi è stato il primo giornalista italiano di un grande quotidiano inviato a Tokyo. E’ stato corrispondente da Bruxelles, quando l’Europa era ancora in formazione; da Mosca quando sembrava un romanzo di spie di John Le Carré; da Washington, come racconta lui stesso, “per la durata di sei Presidenti, oltre un trentennio”, da Ronald Reagan a Donald Trump.
Ha visto guerre, coperto catastrofi naturali e campionati mondiali, intervistato personaggi fra i più grandi del pianeta, non con domande e risposte scritte (come si usa oggi) ma “botta e risposta” con quella faccia tosta che Zucconi ha spesso spacciato per timidezza.
Oltre alla scrittura per la carta stampata, un’altra sua passione era quella radiofonica. E’ stato per oltre vent’anni a Radio Capital, che ha diretto dal seminterrato di casa sua, a Washington. I progressi della tecnologia lo facevano sentire come se fosse a Roma. Competenza, passione, umanità e quel tanto di senso della notizia che lo faceva percepire, ai radioascoltatori, come l’amico che si esprime sempre con una battuta, puntuale e definitiva. Anche questo è grande giornalismo.