Roma, 12 giu. (askanews) – Cantò la West Coast più spensierata, fece sognare al mondo la California degli anni 60 – lontana anni luce dalla guerra all’immigrazione che va in scena in questi giorni – portando nel rock e nel pop la tradizione vocale americana influenzata dal jazz e dalla musica “barbershop”: Brian Wilson, frontman e co-fondatore dei Beach Boys, si è spento a 82 anni, affetto da tempo da un “grave disordine neurocognitivo”, secondo quanto avevano riferito i suoi rappresentanti commerciali quando all’inizio del 2024 chiesero di mettere sotto tutela l’amministrazione del suo patrimonio.
Ma il genio musicale di Wilson, prima che cominciasse il suo lento e combattuto declino psicofisico, era straordinario: “Quell’orecchio”, disse una volta scherzando Bob Dylan, per molti aspetti lontano da Wilson e dal suo mondo, “be’ Santiddio, quell’orecchio che ha deve lasciarlo in eredità allo Smithsonian”, la grande fondazione museale americana con sede a Washington, che ha come missione istituzionale “lo sviluppo e la diffusione della conoscenza”.
Anche chi era distante da quella cultura del del surf, del sole, delle belle macchine e delle “California girls”, non poteva non riconoscere a Wilson un’incredibile capacità di creare musica sempre orecchiabile ma mai banale, a un ritmo oltretutto vertiginoso: durante il loro periodo d’oro, dal 1962 al 1966, i Beach Boys piazzarono 13 singoli nella Top 10 di Billboard. Tre di essi raggiunsero il numero 1, “I Get Around”, “Help Me, Rhonda” e “Good Vibrations”.
Il capolavoro musicale di Wilson arrivò nel 1966 con “Pet Sounds”: la raffinatezza tecnica e la profondità malinconica di pezzi come “God Only Knows” e “I Just Wasn’t Made for These Times” colpirono e influenzarono per loro stessa ammissione i Beatles nella produzione del loro “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. “È stato ‘Pet Sounds’ a farmi perdere la testa”, rivelò Paul McCartney, secondo quanto ricorda in un lungo articolo-necrologio a lui dedicato dal New York Times. “Penso – disse – che nessuno sia davvero istruito musicalmente finché non ha ascoltato quell’album”.
Wilson però non era tutto sole, belle ragazze e surf come nelle sue prime canzoni – e in realtà, a differenza degli altri membri della band, non aveva mai fatto surf, dopo essersi fatto male la prima volta che ci aveva provato. Un’infanzia travagliata dagli abusi subiti da un padre “violento e crudele”, come denunciò egli stesso, lasciò traumi che, insieme alla difficoltà di gestire il successo e la fama, provocarono in lui crisi di panico fin dal 1964. Anche per questo si dedicò sempre più al lavoro in studio, ma entrò in una spirale di droga da cui avrebbe faticato a uscire, riuscendoci anche grazie all’aiuto di uno psicoterapeuta, Eugene Landy, che sarebbe però diventato per lui una sorta di nuovo padre-padrone. Fino alle cause in tribunale e all’ordine di allontanamento emesso verso Landy nel 1992.
Malgrado tutte le difficoltà, Wilson riuscì a risalire la china del successo negli ultimi 20 anni, soprattutto dopo il suo secondo matrimonio, con Melinda Ledbetter, un’ex modella conosciuta in una concessionaria d’auto quando gli aveva venduto una Cadillac. “La mia àncora”, l’aveva definita: un amore che, secondo quanto da lui dichiarato in più occasioni, l’aveva salvato ridandogli fiducia in sé stesso e nella vita. Così, il vecchio Beach Boy aveva cominciato una serie di tour celebrativi fino a completare e ricostruire nel 2004 l’Album “Smile”, il suo progetto più ambizioso, abbandonato dopo 80 sessioni di registrazione nel 1967.
“Essere definito un genio della musica è stata una croce da portare”, aveva dichiarato in un’intervista a Rolling Stone nel 1988, come ricorda il New York Times. “Genio – disse – è una parola grossa. Ma se devi essere all’altezza di qualcosa, tanto vale esserne all’altezza”.