Articolo già pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Steven Forti
Tutti si aspettavano che quella di Barcellona sarebbe stata una battaglia all’ultimo voto tra Barcelona en Comú (BComú), la formazione della sindaca Ada Colau, al governo della città dal 2015, e Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), partito indipendendentista di centrosinistra che presentava come candidato Ernest Maragall, fratello dell’ex sindaco socialista Pasqual. E così è stato.
Le elezioni comunali dello scorso 26 maggio, che hanno visto aumentare la partecipazione del 5,5% rispetto a quattro anni fa, sono state vinte per un pugno di voti – 4.833 per la precisione – da Erc (21,3% e 10 consiglieri; nel 2015 11,1% e 5). In seconda posizione, BComú (20,6% e 10 consiglieri; nel 2015 25,2% e 11), mentre in terza un Partit del Socialistes de Catalunya (Psc) che, anche grazie all’effetto Pedro Sánchez, si è ripreso dopo la forte crisi degli ultimi anni (18,4% e 8 consiglieri; nel 2015 9,6% e 4), seguendo il trend nazionale che ha permesso al Psoe ampie vittorie nelle recenti elezioni politiche ed europee. A seguire, il centrodestra anti-indipendendista di Barcelona pel Canvi-Ciutadans, lista guidata dall’ex premier francese Manuel Valls e appoggiata da Ciudadanos (13,2% e 6 consiglieri; nel 2015 Ciutadans ottenne l’11% e 5 consiglieri), la destra indipendentista di Junts per Catalunya (10,5% e 5 consiglieri; nel 2015 Convergència i Unió, che aveva governato nella legislatura precedente, si fermò al 22,7% e 10 consiglieri) e il Partido Popular (5% e 2 consiglieri; nel 2015 8,7% e 3). Non avendo superato la soglia di sbarramento del 5% sono rimasti fuori dal consiglio comunale sia gli indipendentisti anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (Cup), che negli ultimi quattro anni disponevano di tre rappresentanti eletti, sia gli indipendendisti di destra della nuova lista Barcelona es Capital.
Il sistema elettorale spagnolo per le comunali è un proporzionale puro, senza ballottaggio, il che implica la necessità di formare degli accordi di governo o almeno dei patti di “desistenza” per ottenere l’elezione del sindaco. Se fino al 2014 ciò non aveva comportato grandi difficoltà, essendo essenzialmente due i grandi partiti esistenti nella politica spagnola, nell’ultimo lustro, con la frammentazione del sistema partitico, la situazione si è complicata, anche per la scarsa tradizione di governi di coalizione nella penisola iberica. Si aggiunga poi che, nel caso di Barcellona, la difficoltà è ancora maggiore per la divisione esistente non solo sull’asse sinistra/destra, ma anche su quello indipendentismo/anti-indipendentismo. I risultati del 26 maggio lasciavano dunque spazio a diverse interpretazioni e a intense settimane di riunioni, pressioni e possibili accordi.
È bene ricordare che nella sessione di investitura del 2015 Colau ottenne l’appoggio di tutta la sinistra, sia indipendentista (Erc, Cup) sia anti-indipendentista (Psc), per quanto poi governò in minoranza tutta la legislatura, tranne un breve periodo (maggio 2016-novembre 2017) in cui i socialisti entrarono in giunta. L’alleanza con il Psc si ruppe per l’appoggio del Psoe al commissariamento della regione catalana dopo la dichiarazione di indipendenza dell’ottobre 2017 e non per divergenze riguardo alle politiche cittadine.
In questa occasione Colau ha giocato molto bene le sue carte, al contrario di Maragall, che si è chiuso tutte le porte rivendicando fin dalla notte elettorale la sua vittoria e dichiarando che avrebbe lavorato affinché Barcellona diventasse la capitale della Repubblica catalana. Ciò che il 26 maggio ha dimostrato è però che le formazioni indipendentiste sono in chiara minoranza (15 consiglieri su 41, quando la maggioranza è 21) e che l’unica possibilità è quella di una maggioranza trasversale progressista (Erc, BComú e Psc hanno ottenuto oltre il 60% dei voti), opzione proposta fino all’ultimo da Colau, anche come possibile soluzione sul lungo periodo alla crisi catalana. I veti incrociati di Erc e Psc l’hanno però resa impossibile, al contrario di quanto è successo in altri comuni della regione. La speranza di Maragall era o di convincere Colau a entrare in un governo di coalizione, ma in posizione chiaramente secondaria, o di essere eletto sindaco in minoranza (se non si forma nessuna maggioranza alternativa, automaticamente il candidato della lista più votata si converte in sindaco).
In una simile situazione di impasse a sparigliare le carte è stato però Valls, che già il giorno successivo alle elezioni ha dichiarato di cedere i propri voti a Colau in caso di alleanza con il Psc senza chiedere nulla in cambio, al fine di evitare che Barcellona cadesse nelle mani degli indipendentisti. E questo è stato il risultato finale. Colau è stata rieletta sindaca dopo aver stretto all’ultimo momento un accordo di governo con i socialisti, approvato con il 71% dei voti dagli attivisti della sua formazione in una consultazione interna, e aver ricevuto nella sessione di investitura i voti a favore del Psc e di tre consiglieri su sei della lista di Valls.
L’indipendentismo ha gridato allo scandalo, parlando di fraude democratico e organizzando anche una manifestazione di protesta davanti al comune. Colau, visibilmente in difficoltà per essere stata eletta con i voti di Valls con cui non aveva stretto alcun accordo e con cui non si era mai seduta a negoziare, ha giustificato la sua scelta per poter continuare le politiche portate avanti nella scorsa legislatura: ha spiegato che solo stando al governo ed essendo sindaca ciò era possibile. L’ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca ha dimostrato grande pragmatismo.
Al contrario di quanto successo in altre città “ribelli” (Madrid, Saragozza, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Ferrol), dove le confluenze municipaliste non sono riuscite a mantenersi al governo, l’esperienza neomunicipalista di Barcellona può dunque continuare. È indubbio però che si è aperta una nuova fase che pone non pochi interrogativi. In primo luogo, per quanto una mozione di sfiducia – che in Spagna deve essere costruttiva – non abbia praticamente possibilità di avere successo, Colau dovrà trovare di volta in volta gli appoggi per avere la maggioranza in consiglio: i soli voti del Psc non sono sufficienti e l’intenzione è quella di non dipendere da Valls, che è stato scaricato da Ciudadanos per aver appoggiato Colau e per aver criticato ripetutamente i patti siglati dal partito di Albert Rivera con l’estrema destra di Vox in diversi comuni e regioni spagnole. Valls, sostenuto solo da una consigliera della sua lista, ha formato un nuovo gruppo in consiglio comunale, ma i suoi due voti non sono comunque sufficienti per arrivare alla maggioranza assoluta. Colau cercherà dunque appoggi a seconda delle politiche proposte, ma non sarà facile, anche per la dura opposizione che ha già annunciato Erc.
In secondo luogo, la nuova giunta sarà differente rispetto a quella della scorsa legislatura per il maggior peso dei socialisti. Bisognerà vedere come le due formazioni si spartiranno le diverse aree di gestione del comune e se questo influirà sul tipo di politiche per la città. I socialisti, che hanno governato Barcellona dal 1979 al 2011, hanno un notevole know-how del funzionamento della macchina amministrativa e ciò non può che essere positivo (tenendo anche conto di un certo logoramento vissuto da BComú nell’ultima legislatura per aver governato in minoranza). Ma se vi sono notevoli punti di contatto tra i programmi dei due partiti, esistono anche non poche differenze, soprattutto in questioni quali il turismo o le politiche abitative. E ciò potrebbe avere conseguenze sia sul mantenimento di un programma di cambiamento radicale, come quello difeso da BComú, sia sulla tenuta dello spazio politico di Colau sul lungo periodo.