I segnali che provengono dalle urne fanno pensare a uno smottamento dei blocchi elettorali. Cresce, non a caso, l’astensionismo. Come ci si prepara alle politiche del prossimo anno?
Non è andata bene in termini di affluenza ai seggi. Nei cinque referendum la percentuale è sprofondata al 20 per cento, mentre nei comuni chiamati al voto (gli 818 gestiti dal ministero dell’Interno) si è recato alle urne solo il 54,72% degli aventi diritto. Alle consultazioni precedenti si era toccato il 60,12%. È abbastanza semplice trarre le conclusioni. Prima della fotografia di chi vince e di chi perde, c’è da osservare con preoccupazione quella che certifica in maniera inequivocabile il lento smottamento della partecipazione elettorale. Una politica disossata, con partiti deboli e gruppi dirigenti senza radici, porta a questo scenario di inaridimento democratico.
Le elezioni amministrative non offrono indicazioni uniformi, essendo molte e varie le combinazioni locali che formano e deformano le tradizionali coalizioni di centrodestra e centrosinistra. Cresce la frammentazione come fenomeno correlato all’assentesimo e ciò richiede onestamente una lettura più integrata. Nella cosiddetta periferia emerge una dispersione di fattori che solo l’involucro dell’investitura diretta dei sindaci provvede a contenere, in parte nascondendone gli aspetti negativi, anche dettati da un ricorso irrefrenabile alla personalizzazione della politica. Le basi elettorali, specialmente al sud, risultano friabili, poiché oggi possono disporsi a sostegno di una soluzione amministrativa, domani trasferirsi in altro campo nelle elezioni per il Parlamento.
Naturalmente i segnali che provengono da una consultazione popolare permettono di individuare i processi che investono le realtà di base, come ad esempio la crescita della destra meloniana (a spese della Lega) e il declino del M5S (a vantaggio di tutti e di nessuno). Secondo le intenzioni di voto, certamente più affinate per l’impatto che i voti scrutinati determinano, cambia l’equilibrio tra i partiti. I dati forniti nella tarda serata di ieri da Bruno Vespa ipotizzano nuove percentuali, con Fratelli d’Italia al 22.5, Pd al 19, Lega al 15, M5S all’11.5, Forza Italia all’8, Celenda e Renzi (insieme) all’8. Dunque, il quadro delle alleanze è destinato a comporsi con più difficoltà rispetto al passato, benché prevalga nell’immediato un flebile coro di auspici per l’avvento di un nuovo e sano bipolarismo.
Il problema del governo, però, non trova soluzione nelle alchimie dei numeri o negli artifici delle formule. Scatta sempre il momento della verità. È impossibile credere che ci si possa preparare al 2023 con la frenesia caratterizzante la mobilitazione di tutti contro tutti, benché l’ampia maggioranza di governo resti vincolata alla leadership di Draghi. Il partito di lotta e di governo, concepito da Berlinguer per salvare l’autonomia del Pci, si configura al presente come una tentazione generalizzata a imboccare con disinvoltura una qualche via di fuga dalle responsabilità. Ora, sembra di capire che i mercati – vedi le ultime giornate negative della borsa – non apprezzino affatto questa fibrillazione endemica, incunabolo di alternative che dovrebbero librarsi in campagna elettorale nel vuoto di una narrazione senza più legami con il recente passato di governo. Invece l’Italia ha bisogno di chiarezza e la chiarezza passa per la lealtà e la coerenza dei partiti che condividono con Draghi il peso delle responsabilità. Qualcosa deve accadere per non tracimare nella confusione.