Sono numerosi gli spunti di riflessione offerti dal volume di Giovanni Iannuzzi dal titolo “Aldo Moro nel tempo presente”, pubblicato dalle edizioni del Domani d’Italia. Anzitutto, lo statista pugliese viene liberato dal “caso Moro” in cui è stato confinato nel dibattito pubblico degli ultimi quarant’anni. Molte conclusioni a cui è arrivata la nuova commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni durante la XVII Legislatura (2014-2018), sono importanti e il volume ne dà ampia testimonianza. Le presunte rivelazioni dei terroristi appaiono – alla luce delle nuove conclusioni – una lunga serie di omissioni, quando non di vere e proprie manipolazioni. Non si vuole, in questa sede, mettere in dubbio che la vicenda del sequestro sia – almeno concettualmente – di matrice italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra extraparlamentare, che considerava il Presidente della Dc, in estrema sintesi, come un simbolo del “regime” democristiano. Ma c’era un’altra parte del Paese, bloccata da una diversa “conventio ad excludendum”, che voleva fermarlo con ogni mezzo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di allearsi organicamente con la Destra. Nella vicenda del sequestro queste forze, inizialmente contrapposte, hanno certamente trovato un obiettivo e un interesse comune. Come ha scritto Giuseppe Fioroni nella postfazione del volume, bisogna provare a uscire dalla “rimozione collettiva” di quel periodo. Noi siamo diventati grandi come persone, ma la democrazia italiana non è diventata adulta (come immaginava Moro). Non siamo mai arrivati alla “terza fase”. Al contrario, si sono compiuti significativi passi indietro. Un Paese fragile, il nostro, “dalle passioni accese e dalle strutture fragili”; di cui Moro conosceva quasi tutte le pieghe e di cui aveva intuito le evoluzioni. Ciò che si evince, infatti, è la lungimiranza di un personaggio in grado di comprendere il corso della storia, “l’intelligenza degli avvenimenti”, ad esempio soffermandosi sui fatti del 1968 e su ciò che ne conseguì, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certo non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società» arrivando a parlare di un «moto irresistibile della storia» di fronte al quale nulla sarebbe stato più come prima.
Se il lavoro di ricognizione storico-critica di Iannuzzi ha un pregio, è quello di affrancare l’immagine di Moro dai 55 giorni, dalle sue parole (che pure sono riportate) all’indirizzo di compagni di partito e avversari, dall’interminabile dibattito sulla linea della fermezza e dall’inevitabile conseguenza che la scomparsa di un uomo politico in circostanze tanto drammatiche porta con sé. Come ricostruisce l’autore, lo statista pugliese è, anzitutto, una sorgente di vivacità intellettuale, passione civile, impegno; è il giovane che si batte per farsi candidare ed eleggere all’Assemblea Costituente, sfidando il notabilato democristiano pugliese che non lo vede di buon occhio; è il leader che ascolta, osserva, si sforza di comprendere, che tende una mano a chi è distante, che crede nella virtù della democrazia al punto di difenderla da vari tentativi di golpe; che rischia spesso la vita e diventa oggetto di campagne denigratorie che da sempre minano l’autonomia del nostro Paese. Quello che emerge dal libro è uno statista combattente, che si pone come «punto irriducibile di contestazione e alternativa» nei confronti di un sistema politico che stava ormai franando. Un leader consapevole, insomma, che affinché le cose cambino il cambiamento deve partire da noi stessi. Lo scrive in una lettera a Benigno Zaccagnini, segretario della Dc nei giorni del sequestro, segnato in maniera decisiva da quella tragedia e scomparso, per ironia della sorte, proprio nell’anno in cui, con la caduta del Muro di Berlino, si spezza l’equilibrio di Yalta che Moro aveva provato a incrinare con almeno dieci anni di anticipo.
Le parole di Moro, lette nel suo insieme, costituiscono l’autobiografia di una Nazione in cui la politica non è più in grado di governare i processi, animare le passioni e gestirle adeguatamente, dominata dalla miopia e dal narcisismo di personaggi minori. E qui sta la sconfitta collettiva, il sangue di un uomo “che è ricaduto su tutti noi”. La sua uscita di scena ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti (come l’ha definita Pietro Scoppola) di auto-rinnovarsi. Negli anni ’90 sono arrivati Mani Pulite, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte, l’impossibilità di “governare l’esistente” che spiega in buona parte anche il degrado politico e sociale di oggi.